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Usa: dazi alla Cina al 145%, la risposta di Pechino

La pausa di 90 giorni sulle nuove tariffe americane annunciata dal presidente Trump esclude la Cina, per la quale i dazi volano al 145%. Pechino risponde con tariffe al 125% sui prodotti americani. Male Wall Street e il dollaro che alimentano lo spettro di una recessione

Roberta Barbi – Città del Vaticano

Con il 20% deciso in precedenza per arginare la piaga della diffusione del fentanyl, che va ad aggiungersi alla percentuale attestata al 125, i dazi americani alla Cina arrivano a pesare al 145%: Pechino, infatti, resta esclusa dalla pausa di 90 giorni e risponde imponendo un aumento delle tariffe sui beni importati dagli Stati Uniti, che passeranno dall’84% al 125%.

Il fronte valutario

Lo ha comunicato oggi la Commissione doganale del Consiglio di Stato. Pechino accusa Washington di essere responsabile delle recenti “turbolenze” economiche globali, dopo la decisione del presidente Trump di reintrodurre i dazi su prodotti cinesi. «I dazi statunitensi hanno causato gravi shock ai mercati e minano i sistemi commerciali multilaterali», ha dichiarato il ministero del Commercio di Pechino. Parallelamente, la Cina ha iniziato a muoversi anche sul fronte valutario, lasciando progressivamente svalutare lo yuan: un segnale di risposta tattica che può mitigare almeno in parte gli effetti dei dazi, ma che rischia di inasprire ulteriormente lo scontro con Washington. Il dollaro, nelle ultime sedute, ha superato quota 7,35 contro il renminbi onshore, toccando il massimo dal 2007.

Trattare con l’Ue come “blocco unico”

La pausa ai dazi reciproci annunciata a sorpresa martedì quando le borse erano già chiuse, ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai mercati europei e motivato la decisione di sospendere i controdazi messi a punto dall’Ue. Tuttavia, a causa della risposta cinese, per ora le borse europee restano in ribasso. Francoforte perde l’1,67%, Londra lo 0,24%, Parigi lo 0,94% e Milano l’1,73% a 33.685 punti alle 11:40. Quanto alle trattative future, alle quali, a detta della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, l’Europa “è pronta”, Trump fa sapere che l’Ue verrà considerata come “un blocco unico”, cioè non si negozierà con i singoli Stati. Tuttavia, l’incertezza generata dai continui cambi di rotta della Casa Bianca – come dimostrato dal caso del “Liberation Day” del 2 aprile – ha lasciato i leader europei, soprattutto il presidente francese Emmanuel Macron, cauti: la volatilità dei mercati e l’effetto domino sulle esportazioni hanno convinto Bruxelles a rafforzare la propria posizione unitaria nelle prossime tornate negoziali.

La situazione dell’economia Usa

Intanto la borsa americana crolla, come pure il valore del dollaro, ai minimi dall’ottobre 2024, ma su tali questioni, il presidente Trump ha assicurato: “Ci sono costi di transizione, ma alla fine tutto andrà bene”, precisando che il provvedimento starebbe già portando dai due ai tre miliardi di dollari al giorno nelle casse del Paese. Secondo gli analisti, i dazi potrebbero mettere in pericolo il primato degli Usa sui mercati finanziari, mentre sulla borsa non ha avuto alcun effetto neppure il rallentamento dell’inflazione. La pausa di 90 giorni, inoltre, non offrirebbe alcuna garanzia sul raggiungimento di un accordo e incertezza e dubbi sarebbero causati sia dall’annunciato approccio Paese per Paese nell’ambito dei negoziati economici, sia dalla comprovata imprevedibilità del presidente Trump.  Anche la Federal Reserve si trova ora in una posizione delicata: i dati sull’inflazione di marzo, in leggero calo (-0,1%), potrebbero non riflettere ancora gli effetti delle tariffe e diversi membri del board – tra cui Jeff Schmid e Lorie Logan – hanno messo in guardia contro il rischio di sottovalutare l’impatto strutturale dei dazi sui prezzi. Nel frattempo, crescono i timori di stagflazione: l’economia rallenta mentre i prezzi, alimentati dall’aumento dei costi di importazione, continuano a salire. Il Treasury a 10 anni, indicatore chiave della fiducia nei conti americani, resta sotto pressione: nonostante il recente successo dell’asta da 39 miliardi, i rendimenti tornano a salire, segnalando la difficoltà degli Stati Uniti nel rifinanziare il proprio debito, previsto oltre i 2.000 miliardi nel 2025.



Dal sito Vatican News

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