Donald Trump ci aveva abituato al caos calcolato e al metodo del disordine ma un voltafaccia così – che ha il sapore della resa – non si era mai visto. Difficile trovare un metodo in questa follia, dopo la decisione di sospendere «per 90 giorni» la guerra tariffaria che aveva dichiarato a mezzo mondo, mantenendo dazi iperbolici solo contro la Cina, unico nemico rimasto, detentrice di gran parte del debito pubblico americano.
Cosa ha spinto The Donald a rimangiarsi (quasi) tutto? E soprattutto: chi fa parte del gruppo di apprendisti stregoni che lo consiglia nelle sue scellerate scelte di “voodoo economy”, economia stregonesca, come viene chiamata quella basata su promesse illusorie e vacue? Il primo a usare questo termine fu Bush senior contro la politica fiscale di Reagan ma a Trump il termine calza a pennello. Il suo motto è “fate ricchi me e i miei alleati e tutti i cittadini ci guadagneranno, l’America tornerà di nuovo grande”. Ma non funziona. Finora c’è stata solo una ristrettissima oligarchia ad avvantaggiarsene, a cominciare da Trump, che dall’inizio della sua presidenza continua a fare sfacciati profitti attraverso la società World Liberty Financial, affidata ai tre figli, per non parlare della sua criptovaluta digitale, in barba a qualsiasi conflitto di interesse. C’è persino chi ipotizza dietro questo “stop and go” operazioni di “insider trading” e di aggiotaggio, visto che il presidente americano aveva persino invitato a comprare azioni nei giorni del tracollo di Wall Street. Quanti ci hanno guadagnato investendo nei giorni precedenti al disastro delle borse mondiali scommettendo sul ribasso e vendendo allo scoperto?
La tesi che va per la maggiore è che sia stata “la mano invisibile” dei mercati a fermare il “regime dazista” di Donadl Trump.
Dopo l’annuncio del 2 aprile i mercati hanno bruciato 14.500 miliardi di dollari. I risparmiatori americani hanno avuto perdite medie di 50 mila dollari.
L’ex conduttore del programma Tv “Apprentice” Donald Trump è sembrato seguire una strategia da mercato delle vacche: minacciare gli Stati come fossero “clienti” con un cazzotto e poi, tenendo la pistola sul tavolo, cominciare a trattare da una posizione di forza. Ma stavolta la pistola ha dovuto ritirarla. Anche perché non sono stati solo i listini azionari – che hanno fatto gridare il Financial Times all’incubo della Grande Depressione – a polverizzarsi. C’è un altro dato inquietante che non era stato previsto dal presidente e il suo cerchio magico: i titoli di Stato americani, considerati da sempre beni rifugio sicuri vista la solvibilità. Ma stavolta qualcosa è andato storto, le ultime aste sono andate deserte. Persino il dollaro, la “sound money” per eccellenza, ha cominciato a indebolirsi oltre ogni previsione. I rendimenti sono saliti, essendo direttamente proporzionali al rischio, fino al 4,5 per cento. E i primi a vendere sono state le banche di Pechino, detentrici, come abbiamo detto, del debito pubblico statunitense. Le riserve di titoli americani acquistati dai cinesi continuano a diminuire, e le banche di Pechino stanno diversificando sull’oro (schizzato a prezzi stellari) e su altri titoli esteri. Dunque per la prima volta da decenni gli Stati Uniti vedono un rischio bancarotta e sono finite nella lente delle agenzie di rating (Moody’s, Fitch e Standard & Poors). Non era mai successo.
Poi ci sono tutte le conseguenze di una politica economica protezionistica così aggressiva. L’inflazione generalizzata, prima di tutto, a causa dell’aumento dei prezzi dei beni importati, di cui però approfittano per i loro prodotti anche le stesse aziende americane. Persino i pensionati americani, zoccolo duro dell’elettorato trumpiano, sono arrabbiati neri perché i Fondi pensione hanno perso il 20 per cento del loro valore e non è detto – di questo passo – che possano garantire le rendite. Inoltre ci si è accorti che i prodotti statunitensi, in un mondo globalizzato, spesso e volentieri sono fatti di componenti esteri soggetti ai dazi. L’esempio che si fa è quello dell’i-phone dell’Apple, che è Made in America, ma solo come assemblaggio. Contiene infatti parti provenienti da mezzo mondo, a cominciare dal Giappone e dalla Cina. E il cui prezzo potrebbe salire da 1600 a 2300 dollari.Insomma: la tempesta perfetta, non solo nel mondo, ma in casa propria. Tutto questo ha portato Elon Musk a definire il sottosegretario al Commercio Peter Navarro, convinto “dazista” «più stupido di un sacco di mattoni». In Italia si direbbe: «un cretino».
Anche nel partito repubblicano i malumori crescono e si aggiungono alle proteste di piazza dei giorni scorsi. Ora si tratta di capire se la valanga è ormai inarrestabile o qualcuno può fermarla. Al momento non lo sanno nemmeno alla Casa Bianca. Ma una cosa è certa: l’economia mondiale ha scoperto che l’America, quando si comporta da potenza arrogante, può diventare la sua stessa peggior nemica.