dal nostro inviato a Trieste
Forse più di altre città, Trieste è la sua cultura, la sua storia, la sua letteratura. Il paradosso vivente di un centro che sembra appartato, in periferia, alla frontiera, ma che ha saputo diventare il laboratorio in cui si sono sperimentati attivamente tutti i temi centrali della crisi del Novecento. A cominciare da quella della democrazia – tema di questa cinquantesima Settimana Sociale dei cattolici in Italia – che ha portato all’orrore delle dittature che hanno striato di sangue il “secolo breve”: quella nazista, di cui è simbolo la Risiera di San Sabba (l’unico lager in territorio italiano dotato di forno crematorio che si trova alla periferia della città vicino allo stadio intitolato a un grande triestino, Nereo Rocco), e quella comunista delle foibe dove furono uccisi migliaia di prigionieri, militari, poliziotti e civili, tra cui molti italiani, da parte dei partigiani di Tito.
“La realtà si capisce meglio dalla periferia”, ammonisce papa Francesco che arriva domenica per concludere la Settimana Sociale, incontrare i novecento delegati provenienti da tutte le diocesi italiane e celebrare la Messa in piazza Unità d’Italia, la più estesa d’Europa che si affaccia sul mare, omaggio agli irredentisti impiccati dagli austriaci e ai duemila volontari che disertarono dall’esercito imperiale per combattere accanto agli altri italiani.
Il Pontefice ha scritto un testo per Il Piccolo, il quotidiano locale, in cui riflette sul genius loci di Trieste, città di frontiera, crocevia di commerci e religioni, città piagata dagli estremisti del Novecento, città con un’antica storia di contaminazioni tra religioni, dittature, saperi come la psicanalisi e la medicina, la letteratura e la fisica. Qui venne Franco Basaglia a rivoluzionare la psichiatria italiana, i padiglioni ottocenteschi del vecchio manicomio – per “tranquilli”, “semiagitati”, “agitati” – oggi ospitano asili nido e istituti universitari.
Qui ci sono sette cimiteri: cattolico, ebraico, islamico, greco-ortodosso, serbo-ortodosso, evangelico, più quello militare con tombe di ogni religione. Ci sono chiese luterane, valdesi, metodiste, anglicane, oltre a una sinagoga tra le più grandi d’Europa – oggi sorvegliata a vista dai militari dell’Esercito – dove ogni anno si organizzano diversi concerti per ricordare i compositori e musicisti ebrei italiani morti ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento nazisti.
C’è una chiesa ortodossa di straordinaria bellezza, San Spiridione, con le cupole e l’iconostasi dorata come al Cremlino. E, a pochi metri, un’altra chiesa ortodossa, quella di rito greco di San Niccolò, che affaccia sul mare.
In questi giorni della Settimana Sociale la città, tra la zona del canale di Ponterosso e piazza Hortis, passando per piazza della Borsa e Cavana, si è colorata con gli stand delle “buone pratiche” che hanno declinato concretamente il tema dell’evento, “Al cuore della democrazia”, attraverso giochi di partecipazioni, incontri e dibattiti, ospiti prestigiosi, dai presidenti emeriti della Corte Costizuonale alla costituzionalista Marta Cartabia, momenti di riflessione, preghiera e anche spettacolo.
Ma, al contempo, ha mantenuto la sua identità, così profonda da non escludere, così intensa da abbracciare tutti, fatta di cose che esistono solo qui: i buffet dove servono le carni affumicate con il kren e il bollito austroungarico, l’espresso che qui si chiama nero e il macchiato capo, i ricreatori, sorta di oratori laici per i ragazzi, aperti dai tempi degli Asburgo, i caffè storici, da quello degli Specchi, anno 1839, al San Marco, 1914, e al Tommaseo, che servirono la Sachertorte a Joyce e a Rilke, a Saba e Svevo perché, come ha detto Claudio Magris che qui è nato e al Caffè San Marco, tavolo numero 1, è di casa, «quando una città non sa dov’è, di chi è, che cos’è, allora si affida alla letteratura».
Scrive il Papa, nel testo pubblicato in prima pagina sul Piccolo, che «la difficoltà delle democrazie nel farsi carico della complessità del tempo presente – pensiamo alle problematiche legate alla mancanza di lavoro o allo strapotere del paradigma tecnocratico – sembra talvolta cedere il passo al fascino del populismo. La democrazia», prosegue il Pontefice, «ha insito un valore grande e indubitabile: quello dell’essere “insieme”, del fatto che l’esercizio del governo avviene nell’ambito di una comunità che si confronta, liberamente e laicamente, nell’arte del bene comune, che non è altro che un diverso nome di ciò che chiamiamo politica».
A Trieste, più che altrove, si tocca con mano che la memoria è un’arma a doppio taglio: può trasformarsi in odio ed essere brandita per attizzare divisioni e rancori nel presente oppure essere strumento di riconciliazione e di pace, stimolo a rimboccarsi le maniche e andare avanti nella costruzione di quella fratellanza umana «cui aspiriamo», sono ancora le parole del Papa, «in questi tempi oscurati dalla guerra».
La storia come opportunità e non come clava da brandire.
A Trieste siamo tutti un po’ debitori: è stata conquistata al prezzo di 650 mila vite con Giosué Carducci che nel 1879 omaggiava l’irredentismo triestino con versi di vibrante passione civile: «in faccia a lo stranier, che armato accampasi / su ’l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!», che si possono leggere sulla lapide posta di fronte alla splendida cattedrale romanica di San Giusto.
Trieste perduta nel disastro della guerra e dell’esodo istriano, ripresa dopo diciotto mesi di crimini nazisti, quaranta giorni di massacri titini e nove anni di occupazione angloamericana.
Trieste che ha dato all’Italia Saba e Svevo, Strehler e Magris, Kezich e Dorfles, Trieste crocevia di tre mondi, quello latino, quello tedesco e quello slavo, Trieste, definita la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropa.
Trieste città di frontiera, solo che a cinque chilometri non c’è più il comunismo e la cortina di ferro ma l’Est minacciato dalle mire espansionistiche di Putin con la guerra, in Ucraina, tornata nel cuore del Vecchio Continente e l’Europa, contraddittoria ma necessaria, di oggi e di domani.
Trieste città terminale della rotta balcanica dove arrivano migranti d’ogni tipo e disavventura e dove l’Europa ha smesso di essere «patria comune», per citare De Gasperi ricordato mercoledì dal cardinale Matteo Zuppi nel suo intervento in apertura della Settimana Sociale, ma somma di interessi nazionali con pericolosi rigurgiti nazionalistici e razzisti.
Non si capisce il dramma di Trieste (e neppure il tema della democrazia di cui si discute in questi giorni) senza visitare il lager della Risiera di San Sabba e la foiba di Basovizza, poco fuori dalla città, sul Carso. Oggi, entrambi, sono monumenti nazionali visitati da decine di migliaia di persone tra cui molti studenti.
Nel lager di San Sabba, nome insolito per uno stabilimento in cui si lavorava il riso, sono stati uccisi, bruciati, finiti a botte o asfissiati con i gas di scarico dei camion, quasi tremila antinazisti, tra cui centinaia di ebrei.
Basovizza era un cunicolo scavato da un minatore che cercava la bauxite, la leggenda dice che non avendola trovata si sia gettato dentro. Quanti corpi ci siano con il suo, non si saprà mai con precisione. Gli inglesi occupanti provarono a recuperarli con l’argano, ma rinunciarono quando s’imbatterono in granate inesplose e, come raccontano i vecchi triestini, nella carcassa di un cane nero, che i titini gettavano insieme con gli odiati italiani per sfregiarne l’identità e dannarne l’anima per l’eternità.
Nel 2020, in un evento destinato a restare nella storia, a Basovizza sono arrivati il presidente Mattarella e il suo omologo sloveno Pahor tenendosi per mano. San Sabba e Basovizza sono entrambi simbolo della tragedia a cui può portare la fine della democrazia e la repressione della libertà.
Trieste porta su di sé molte ferite della storia, da esempio di integrazione e tolleranza a cavallo fra antico regime e modernità, nel Novecento è diventato laboratorio inquietante della violenza e dell’orrore.
Dopo la persecuzione degli slavi arriva quella degli ebrei. Poi la Seconda guerra mondiale, l’8 settembre, il crollo dello Stato, l’occupazione tedesca che crea una Zona di operazioni Litorale Adriatico di fatto staccata dall’Italia. Anche la Resistenza qui è stata diversa e si è spaccata: una italiana e una slovena, che non riuscivano ad andare d’accordo tra loro come dimostrano i fatti del 30 aprile 1945 quando, unico caso in Europa, contro i tedeschi scattano due insurrezioni in parallelo e concorrenziali: quella del CLN e quella di Unità operaia, organizzazione comunista a guida slovena. Poi il Crollo del Muro, la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, il gran caos che ne segue in tutta Europa.
Trieste ci mette un po’ a prendere le misure e ora, con le imponenti navi da crociera che arrivano nel Porto e inondano il centro di turisti da tutto il mondo, ha riscoperto una nuova identità ed è diventata, anche, un laboratorio di riconciliazione come dimostra l’evento del 2010 quando i presidenti della Repubblica di Italia (Napolitano), Slovenia (Turk) e Croazia (Josipovic) si sono incontrati nei luoghi simbolo delle memorie sanguinanti del Novecento e nel concerto-evento diretto dal maestro Muti in piazza Unità d’Italia.
L’arrivo di papa Francesco, tessitore paziente, profeta (inascoltato) di dialogo in un’Europa dove aleggiano gli spettri della guerra e degli odi razziali che sembravano archiviati definitivamente, è un’altra pagina, importante, di storia per Trieste.