L’Osservatore Romano ricorda la vicenda del velocista statunitense, olimpionico a Città del Messico nel ’68, che sul podio levò in alto la mano guantata di nero assieme al suo compagno di squadra John Carlos: ero arrabbiato con le ingiustizie razziste, volevo dire al mondo: “Siamo tutti uguali”. “Quel gesto ha segnato la mia vita, ho sperimentato minacce, emarginazioni, fraintendimenti”
Giampaolo Mattei – Città del Vaticano
«Non ho mai abbassato quel pugno. Idealmente, direi spiritualmente, è come se fossi ancora là, su quel podio a Città del Messico il 16 ottobre 1968, scalzo, con al collo la medaglia d’oro dei 200 metri, il braccio teso verso l’alto e il pugno chiuso in un guanto nero». A parlare è Thomas “Tommie” Smith, classe 1944. Detto The Jet.
Quel suo gesto è considerato una delle icone nella lunga storia dei Giochi olimpici. E non solo. Oggi lo racconta così: «Avevo appena vinto i 200 metri, stabilendo anche il nuovo record del mondo con 19”83’: nessuno aveva mai corso sotto i 20”. Ma ero arrabbiato per le ingiustizie razziste. Non ho esultato per l’oro e per il record. In realtà arrabbiato lo sono ancora. Però non è la rabbia ad avermi fatto alzare il pugno. No, non era “Tommie Smith contro l’arroganza dei bianchi”».
Smith e il suo compagno di squadra John Carlos — medaglia di bronzo — quel gesto lo hanno pagato salato. Ma senza mai pentirsene. Subito espulsi dal Villaggio olimpico a Città del Messico, Smith per “indegnità” anche fuori dall’esercito. Non correranno più, non rappresenteranno più gli Stati Uniti: 2 anni di carriera straordinari ma poi, all’apice, stop.
L’uomo “più veloce del mondo” ha tirato avanti anche lavando auto, poi ha giocato a football americano con le riserve dei Cincinnati Bengals per tre stagioni. In pratica scompare. Ci sono voluti anni perché a uno dei più forti velocisti della storia fosse concesso di essere allenatore di atletica. Neppure con la laurea e corsi specialistici era riuscito a fare il poliziotto o l’infermiere o il professore di sociologia (il suo sogno), persino il lavapavimenti. Nulla. Porte sbarrate dopo il pugno levato in alto alle Olimpiadi. E a casa sua, in Alabama, sono arrivate minacce di morte del Ku Klux Klan.
Da uomo di sport Smith non fa ricorso a giri di parole: «La mia storia, che poi non è solo mia, è attuale». I tempi sono cambiati e stanno ancora cambiando, canta Bob Dylan. «Ma non è ancora materiale da archivio».
Il punto, sostiene Smith, è che «su quel podio — senza scarpe e con le calze nere — c’era un essere umano che soffriva tremendamente per i pregiudizi razziali. Una persona che aveva appena vinto l’oro alle Olimpiadi ed era consapevole di avere la possibilità di dire e, con un gesto, a milioni di persone: “Siamo tutti uguali!”».
In realtà, rilancia, «ancora oggi sento l’impulso di alzare simbolicamente il pugno davanti alle ingiustizie. Ma quel gesto a Città del Messico — sul podio con il mio amico John Carlos — resta unico, pensato pochi minuti prima ma figlio di anni di ingiustizie». E dopo quel “pugno alzato” nulla è stato più come prima. «E sì, è un gesto che ha segnato la mia vita — non solo la mia — più della vittoria. Ho sperimentato minacce, emarginazioni, fraintendimenti».
E con Carlos ne ha fatto le spese anche l’australiano Peter Norman, la medaglia d’argento. È morto nel 2006. Dimenticato. Ma non da Smith e Carlos che al funerale portarono a spalla la sua bara. «Ebbe un ruolo fondamentale su quel podio, anche se veniamo ricordati solo John e io» dice Smith.
È la storia di un guanto e di una coccarda: «John aveva dimenticato i guanti neri — segno di protesta — al Villaggio olimpico. Fu proprio Peter a suggerirmi di darne uno a John. Ecco perché entrambi indossiamo un solo guanto». Norman lasciò la scena ai due statunitensi. «Avevamo le coccarde dell’Olympic Project for Human Rights, un’organizzazione nata proprio per protestare contro la segregazione razziale. Norman ci disse: “Ragazzi, sono con voi, datemi una coccarda e la metterò sul petto alla premiazione”».
È stata una sentenza di condanna. Nonostante ne avesse diritto — superando 13 volte il tempo di qualificazione sui 200 e 5 volte quello sui 100 — Norman non venne convocato per le Olimpiadi di Monaco 1972. E neppure invitato nel 2000 alle Olimpiadi di Sydney. Cancellato. Nonostante fosse il primatista oceanico e australiano dei 200 metri (il suo record di 20”06 ottenuto proprio a Città del Messico è stato battuto nel 2024, dopo 56 anni).
Solo nel 2012 il Parlamento australiano ha corretto l’ingiustizia, scusandosi espressamente. Anche la Federazione di atletica degli Stati Uniti gli ha dato merito. Norman però era già morto. «Peter non ha girato gli occhi dall’altra parte e lui, un bianco, poteva anche farlo» dice Smith.
Dal 2005 nel campus dell’Università californiana di San José c’è una scultura in fibra di vetro che riproduce il podio messicano. Il secondo gradino del monumento è vuoto: non c’è la statua di Norman accanto a quelle di Smith e Carlos. Perché simbolicamente chiunque abbia lo stile di Norman possa salire su quel podio.
Insomma: cosa è stato, cosa è, quel pugno? «Resta il segno di una rivolta contro i diritti negati. Un segno che vale per i bianchi, per i neri… per tutti! Faccio un esempio: era il 1968 e, secondo me, era giusto pretendere l’accesso allo studio dei neri. Ma al College l’avevo visto negato. Su quel podio olimpico non ero io, Tommie Smith, a invocare libertà c’era la mia faccia, assolutamente sì, ma per rappresentare un sentimento comune di richiesta di giustizia. Ecco perché non direi di aver fatto quel gesto per sostenere una “causa”: non era una propaganda a favore di un gruppo. Era un gesto di umanità»