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«Sull’autismo è tempo di fare meno diagnosi e più ascolto».

Parola d’ordine: ascoltare. Ascoltare i desideri, i sogni, le aspirazioni dei giovani con disabilità. È la missione dell’Istituto Serafico di Assisi, Centro d’eccellenza italiano per la cura e la riabilitazione di bambini e ragazzi con disabilità complessa, oggi in prima linea nella realizzazione del Progetto vita, previsto dalla nuova normativa che si occupa di autismo. Grazie alle Linee guida dell’Istituto superiore di sanità per i disturbi dello spettro autistico e alla legge 227/21, culminata nel decreto legislativo 62/24, il cambio di rotta è stato tracciato: pensiamo alla persona, non alla malattia. Dove finisce la diagnosi inizia la vita. Sono nove le province italiane coinvolte nel progetto pilota (Brescia, Catanzaro, Firenze, Forlì-Cesena, Frosinone, Perugia, Salerno, Sassari e Trieste), con l’intento di estenderlo presto a tutto il territorio nazionale. La sfida è partita e gli operatori sono messi al lavoro: tra loro Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi, alla quale abbiamo rivolto alcune domande, in occasione della Giornata mondiale per la consapevolezza dell’autismo, che si celebra il 2 aprile in ogni continente.

Qual è il valore aggiunto portato dalla nuova normativa?

Il decreto legislativo prevede, non più come una possibilità ma come un diritto, a richiesta del caregiver o della persona con disabilità, di avere un “progetto vita”. Tale progetto, che è il cuore della nuova normativa, porta a unità tutti quegli interventi che prima erano frammentari.

In pratica che cosa cambia?

Significa affrontare la questione da un nuovo punto di vista. Ora si metteranno allo stesso tavolo i rappresentanti della scuola, il personale sanitario, coloro che si occupano della persona con disabilità e la persona con disabilità stessa. Mentre prima gli interventi erano singoli e disomogenei – Comune, Asl, Inps agivano ciascuno per proprio conto – d’ora in avanti sarà un impegno condiviso e organizzato, in cui tutti gli attori si muovono come una entità unica.

Cambia anche il ruolo della persona con disabilità?

Certo, il suo ruolo diventa centrale. Ad essere dominanti saranno i suoi desideri, le aspettative, i sogni, ciò che piace e ciò che non piace: si rivoluziona così l’intera relazione di cura, al centro della quale la persona con disabilità non è più un individuo da accudire, ma il protagonista.

Con quali disabilità vi interfacciate quotidianamente nel vostro Istituto?

Nella nostra struttura abbiamo a che fare con persone con disabilità molto gravi: parlo di bambini e ragazzi con disturbi dello spettro autistico o comunque con disturbi del neurosviluppo. Quasi nessuno di loro ha un linguaggio verbale e presentano spesso “comportamenti problema” (azioni che possono mettere in pericolo la persona stessa o gli altri, ndr) e disturbi del comportamento. I casi di autismo di cui ci occupiamo sono quasi tutti a basso funzionamento (con gravi difficoltà nella comunicazione sociale, oltre a problemi nella sfera cognitiva, sensoriale e motoria, ndr).

Il Progetto vita comporta nuove modalità di approccio da parte degli operatori?

Sì, e non ne avevo intuito la portata fino a quando non abbiamo iniziato questo nuovo percorso di formazione. Noi tutti che abbiamo a che fare con soggetti fragili con disabilità gravi dobbiamo modificare il modo di porci nei loro confronti. E la strada ce l’aveva già indicata papa Francesco, quando era venuto a visitare il nostro Istituto. “Qui siamo fra le piaghe di Gesù” ci aveva detto, per poi aggiungere: “Ma queste piaghe devono essere ascoltate”. È da qui che dobbiamo partire con questo progetto: loro sono i soggetti e noi abbiamo il dovere di metterci in ascolto. E poi costruire, intorno alla persona, non alla patologia.

Costruire un nuovo modo di comunicare?

È il primo passo essenziale: trovare prima di tutto un codice di linguaggio adatto a ogni situazione e ogni persona con disabilità. Un linguaggio alternativo a quello verbale: abbiamo sempre operato in questo senso, ma è un aspetto che va potenziato al massimo e ora è una delle nostre priorità. Utilizziamo tessere, immagini, gesti, tutto ciò che può aiutarci a sostituire le parole quando non sono efficaci. Ed è dentro questo nuovo canale comunicativo che va costruito l’ascolto.

E come si fa ad ascoltare una persona che non parla?

Dobbiamo imparare a percepire i suoi segnali, capirne i messaggi, attraverso gli sguardi, i gesti, gli atteggiamenti, i cambiamenti di espressione. Perché si tratta di un individuo che ha sentimenti, desideri, sogni, che noi abbiamo il dovere di recepire e comprendere.

Lei prima ha fatto cenno ai “comportamenti problema”: in questi casi come si può migliorare la comunicazione?

È una delle maggiori difficoltà nell’affrontare i disturbi dello spettro autistico. Questi comportamenti in realtà nascono in molti casi proprio da una comunicazione sbagliata: la persona non si sente capita e risponde con reazioni forti o scomposte, perché abbiamo un atteggiamento diretto a imporle quello che deve fare senza soffermarci ad ascoltare ciò di cui ha davvero bisogno.

Nel caso dell’autismo uno dei vostri compiti è anche quello di proteggere le persone di cui vi occupate: dai pericoli esterni, ma a volte anche da se stesse…

Anche in questo aspetto del nostro lavoro dobbiamo cambiare approccio: ospitando nella struttura persone con disabilità gravi, abbiamo realizzato degli ambienti di vita molto tutelanti, avendo la costante preoccupazione che i bambini e i ragazzi possano farsi male. Questo atteggiamento iperprotettivo – pur essendo ampiamento giustificato – può a volte essere controproducente. Se ci facciamo dominare dalla paura, infatti, togliamo alle persone di cui ci occupiamo la libertà.

Di quale libertà parliamo?

Della libertà di scegliere, della libertà di sperimentare, sbagliare, riprovare. Non solo i caregiver o i familiari, ma soprattutto noi operatori abbiamo la tendenza a togliere alla persona con disabilità qualsiasi stimolo o opportunità di scelta, temendo che qualcosa vada storto. Attraverso il Progetto di vita si fa proprio il contrario: si aggiungono possibilità, costruendo – in un contesto sicuro – un ambiente in cui l’individuo possa realizzare, ciascuno in base alle proprie facoltà, la sua autonomia. Non si toglie nulla per proteggere, ma si aggiunge per far crescere. E ciò va a vantaggio della salute.

Che tipo di strumenti avete a disposizione per realizzare questo progetto?

La formazione prima di tutto. Sono già partiti i corsi, previsti dalla legge, organizzati a livello ministeriale nelle nove province coinvolte nella sperimentazione, tra cui Perugia. Nello specifico, l’Istituto Serafico di Assisi ha sentito la necessità di una formazione intensa, dotandosi anche di supervisori esterni: si tratta di una figura che ci accompagna non solo nella formazione frontale, ma entra nelle residenze, partecipa ai contesti di lavoro e supervisiona l’operato del nostro personale. È una scelta che nasce dall’esigenza di cambiare in modo concreto il nostro modo di porci nei confronti delle persone con disabilità, mettendoci in discussione. Perché è questo che dobbiamo fare. Gli strumenti ci sono: la nuova normativa ci consente di dare avvio a questa rivoluzione, ora tocca agli operatori – pubblici e privati – cambiare mentalità.

Quali sono gli scogli da superare perché questo progetto diventi realtà?

Il vero unico scoglio siamo noi. Parlo degli operatori, di tutti i settori, che si occupano di persone con disabilità e in particolare con disturbi dello spettro autistico. Per realizzare questo cambiamento – che definirei epocale – dobbiamo agire con umiltà, rivedendo alla radice l’approccio finora utilizzato. Sappiamo bene che mettersi in discussione non è facile, ma è necessario se vogliamo arrivare a una svolta per il bene delle persone di cui ci prendiamo cura. La logica da cui bisogna uscire è quella prestazionistica, standardizzata, tuttora imperante, centrata sulla diagnosi, sulla patologia e sull’intervento clinico. Un approccio che si basa sulla presunzione di conoscere sempre i bisogni della persona e di essere in grado di fornirle le prestazioni adeguate. Ecco, è proprio questo modo di pensare che va stravolto. È questa la grande sfida.

Le famiglie sono pronte al cambiamento?

Le famiglie sono pronte eccome! Anzi, da tempo chiedevano un cambio di rotta, che prevedesse un atteggiamento di questo tipo. Hanno bisogno di essere supportate da una rete di operatori che agiscano in modo armonico e organizzato, con al centro la persona con disabilità, non la sua malattia.

E allora cosa manca ancora?

Il cambiamento non può calare dall’alto. Serve un’alleanza tra istituzioni, enti del terzo settore, famiglie, operatori e cittadini. Siamo tutti coinvolti. Certo, le lacune sono ancora tante e ogni regione presenta realtà e criticità differenti. Bisogna intervenire nell’ambito dell’integrazione e dell’inclusione, nei servizi sanitari, nella scuola con gli insegnanti di sostegno. Bisogna potenziare le risorse e investire nell’aggiornamento. La nuova legge prevede tutto questo, è ora di tirarsi su le maniche per passare ai fatti. Mettere allo stesso tavolo l’insegnante, il neuropsichiatra, l’educatore, l’operatore dei servizi sociali, i genitori, esponenti dei servizi cittadini che possono intervenire nella vita quotidiana (penso ai trasporti per esempio): è l’unica strada per portare avanti un progetto che abbiamo al centro le aspirazioni, i desideri, gli interessi, le preferenze del bambino o del ragazzo di cui ci si prende cura. Il cambiamento deve essere generalizzato e avvenire in contemporanea in ogni ambiente, altrimenti mancherà sempre un pezzo.

La persona con disabilità diventa protagonista: può farmi un esempio pratico?

Per esempio nelle riunioni che la riguardano. Il progetto prevede che le persone con disabilità, anche se non hanno un linguaggio verbale o con ritardo mentale, possano partecipare alle riunioni in cui si parla di loro. Perché dovremmo escluderle? È un passo importante, che dovremmo compiere proprio per ricordarci che ci occupiamo di persone.

Si parla di Progetto vita indipendente: ma a quale autonomia si può aspirare in caso di autismo o disabilità grave?

Ogni situazione è un caso a sé con livelli di autonomia differenti. Nel nostro Istituto ci confrontiamo con livelli di gravità molto alti, ma ciò non esclude la possibilità di arrivare a un livello di autonomia commisurato alla patologia. Con gli strumenti adeguati si possono ottenere buoni risultati non solo nella facoltà espressiva, ma anche nella capacità di vestizione e nell’autonomia di alimentazione, che spesso nell’autismo è di tipo selettivo. Tutti elementi che rafforzano la persona e la preparano ad affrontare il futuro.

L’Italia, con il decreto legislativo 62 del 2024, si pone all’avanguardia nella cura delle persone con autismo, una patologia in crescita a livello mondiale…

L’autismo è in crescita nel mondo: secondo le stime più aggiornate colpisce un bambino su 36. Quindi l’emergenza c’è e non può essere affrontata con soluzioni tampone. Con la nuova normativa il nostro Paese ha fatto un passo avanti coraggioso ed è su questa strada che dobbiamo camminare.

Qual è il vostro impegno nell’immediato?

Rendere l’Istituto Serafico di Assisi uno dei laboratori più avanzati di questa trasformazione, che coniuga spiritualità, competenza e innovazione, guardando al futuro con un solo obiettivo: rendere il diritto a una vita dignitosa una realtà concreta per ogni persona con disabilità.

Di che cosa avete bisogno per realizzarlo?

Vorrei lanciare un appello alle strutture come la nostra, in particolare quelle religiose: dovremmo fare più rete tra di noi, per condividere protocolli, risorse e conoscenze. Solo così potremo, una volta che il bambino o ragazzo sarà uscito dalla nostra struttura e tornerà a casa, accompagnarlo nella sua vita in famiglia. Il nostro lavoro è intensivo e gestisce una fase della sua vita, ma dopo di noi cosa accade? Dobbiamo fare in modo che genitori e familiari non si sentano abbandonati, immaginando che ci siano servizi territoriali e domiciliari che continuino il nostro lavoro. Solo creando una rete solida ed efficiente realizzeremo in toto il Progetto vita.

nelle foto, Francesca Di Maolo.

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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