Schiavitù, una parola aspra, pesante e dai confini vasti. Oggi il termine può essere utilizzato per descrivere diverse condizioni di sfruttamento, che dilagano in molti settori lavorativi: dall’agricoltura all’edilizia, fino ai lavori di cura e al caporalato digitale. Senza dimenticare la tratta di donne e minori, una pratica i cui inizi si perdono nel tempo e tuttora in vigore.
Questi sono stati i temi trattati durante il convegno «Un mondo di schiavi», un evento annuale organizzato da Caritas Ambrosiana e Centro Pime in occasione della Giornata mondiale contro la tratta di persone. Una giornata che rimanda alla memoria di Santa Giuseppina Bakhita, donna sudanese rapita a 7 anni nel 1876 e venduta sul mercato degli schiavi più volte.
«La storia di Bakhita è sconvolgente, così come il tema della tratta. – ha spiegato in apertura dell’evento padre Gianni Criveller, direttore del Centro Pime – Questo argomento è molto più vicino a noi di ciò che pensiamo. È una questione grave e urgente, che noi di Pime proviamo ad affrontare da anni in tutto il mondo. Anche il Giubileo della speranza punta a liberare le persone dalla schiavitù».
Tuttavia, come anticipato, la schiavitù non è solo legata alla tratta, ma anche allo sfruttamento dell’essere umano sul lavoro. Persone a cui viene sottratta ogni dignità economica e sociale. Il lavoro viene messo davanti alla persona, il volto viene cancellato.
Ed è da un volto che parte l’analisi della professoressa Angela Lodigiani, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università Cattolica di Milano. «Sulla locandina di presentazione del convegno vediamo il volto di Satnam Singh (il bracciante morto tragicamente in un incidente sul lavoro a Latina nel giugno del 2024. E dopo essere stato ferito, Singh era stato abbandonato agonizzante dal datore di lavoro, ndr). Un volto ci permette di associare un nome, in questo caso Satnam. Ma la schiavitù cancella la personalità umana. Lo sfruttamento colpisce i gruppi sociali più fragili, come giovani, donne, stranieri e persone con basse qualifiche professionali. I settori lavorativi meno controllati sono quelli più esposti al caporalato. Qui la criminalità si infila facilmente, grazie anche a un sistema economico che favorisce tutto ciò», ha spiegato Lodigiani.
La sociologa poi si è soffermata su alcuni aspetti legati alla persona: «Non bisognerebbe mai perdere di vista la tutela della dignità. Ricordiamo Papa Giovanni Paolo II, quando invitò durante il Giubileo del 2000 a creare una coalizione globale per il lavoro dignitoso. E anche Papa Francesco ha ribadito più volte come un essere umano debba realizzarsi grazie al lavoro. Persona e lavoro dovrebbero sviluppare un legame in grado di creare un senso di appartenenza alla comunità».
Questo senso di appartenenza viene però spesso negato, a causa della precarietà e della totalizzazione del lavoro. «La precarietà impedisce a una persona di sviluppare la propria vita. Il confine tra lavoro e vita personale si erode. Viviamo in una società della prestazione», conclude Lodigiani.
Nella seconda parte dell’incontro sono state analizzate le tipologie di sfruttamento nei singoli settori, a partire dal caporalato digitale, l’organizzazione della manodopera gestita tramite app e algoritmi. I più colpiti in questo caso sono i riders, persone non tutelate dalla legge e costrette a lavorare a cottimo.
«Il caporalato digitale è un’estensione della catena di montaggio fordiana. Invece di stare uno accanto all’altro, i lavoratori vanno in giro e ricevono indicazioni tramite un telefono. L’algoritmo organizza il lavoro, la velocità è fondamentale. Il lavoratore viene controllato sempre con queste app e vive in una costante condizione di minaccia. – ha spiegato Mariagrazia Lamannis, dottoressa di ricerca in Diritto del Lavoro presso l’Università “Magna Græcia” di Catanzaro – Se il fattorino non consegna la merce o arriva in ritardo perde soldi. Lo sfruttamento è totale. Il caporalato digitale a livello giuridico fa parte del lavoro nero o grigio. Non c’è regolamentazione a livello penale, solo in parte e male a livello civile».
Il settore edile invece sta vivendo un periodo di grande crescita. Nel caso specifico, però, il problema è legato al tipo di «contratto», di fatto inesistente, sottoscritto dai lavoratori perlopiù stranieri.
«Le statistiche sul settore edile ci dicono che nell’ultimo anno il 65% degli operai attivi a Milano non è nato in Italia. A marzo 2024 abbiamo raggiunto il 90%. E il 60/70% di questi lavoratori stranieri sono egiziani. – ha approfondito Alem Gracic, segretario generale della Filca Cisl di Lombardia – Non sono migranti, ma persone che vedono nell’Italia, spesso in modo ingannevole, una possibilità. Poi arrivano qui e si infilano in situazioni di sfruttamento totale nei cantieri. L’importante per loro è quanto ricevono all’ora. Più lavorano, più guadagnano e più possono mandare soldi a casa per aiutare le loro famiglie. Il contratto regolare di fatto non esiste».
Il contratto non regolare è una costante anche per il lavoro di cura, un settore capace negli anni di sviluppare un welfare parallelo nascosto, ma che ora sta calando a livello di domanda. A sottolineare l’aspetto è stata Giamaica Puntillo, presidente Acli Colf: «Il calo delle nascite e l’aumento dello smart working hanno fatto diminuire l’esigenza delle famiglie di assumere un collaboratore domestico. A ciò si è aggiunto un aumento del costo del servizio lavorativo. Molti nuclei familiari, per pagare badanti o baby sitter, sono costretti a utilizzare il 50% del loro reddito. Senza dimenticare i problemi sempre più frequenti che sorgono a livello personale tra lavoratore e persona assistita, i rischi di ammalarsi e i problemi delle competenze richieste. Tutti fattori non regolamentati».
Cosa si può fare dunque per cambiare la situazione? La risposta ha provato a darla la professoressa Lodigiani, consapevole però delle difficoltà: «Intervenire sullo sfruttamento vorrebbe dire cambiare il sistema normativo. Non è né semplice, né immediato. Serve fare un salto culturale e prendere consapevolezza della trasversalità dello sfruttamento nel lavoro. Dobbiamo puntare sui volti e sul legame sociale».