Chissà se papa Francesco, nell’immaginare la sua ultima dimora terrena nella basilica di Santa Maria Maggiore, oltre che all’icona della Salus populi romani, ha pensato anche a quel quartiere, l’Esquilino, così multietnico e multireligioso. Nella prima mattina dopo i funerali la gente si è messa in coda, a migliaia, per pregare davanti a quella lapide in marmo chiaro che continua a rimandare, con forza, i passi salienti del suo Pontificato. Non solo credenti, come testimonia Roberto, che ricorda la frase di Francesco: «Meglio essere atei che cristiani che parlano male degli altri. Anche se sono ateo, se posso, faccio del bene agli altri, come ci ha insegnato lui». Florine, invece, originaria del Benin, ma che vive a Grenoble dove fa l’infermiera addetta alle sale operatorie, è venuta «per i funerali. Sono credente e questo Papa mi ha ricordato il grande valore dei poveri. Ha testimoniato una Chiesa che si prende cura degli ultimi, una Chiesa povera, secondo il messaggio del Vangelo». Ci sono le suore ospedaliere, che corrono in fretta ai loro impegni e c’è il gruppo della Divina misericordia della parrocchia Buon Pastore di Cormano, vicino Milano. «Era il Papa di tutti», dicono insieme Diana e suo marito, che erano venuti dall’Australia per il Giubileo. Oltre ventimila nella sola mattinata del 27 sono transitati, in fretta per lasciare il posto agli altri, davanti alla tomba di Francesco. E altre migliaia se ne attendono. Uno striscione recita “Grazie Francesco”. Non poteva esserci esposizione migliore, da quelle finestre del Collegio lombardo, quello che fu approvato nel 1890 da Leone XIII e che, nel 1943, grazie al rettore Francesco Bertoglio, salvò 65 ebrei dalle persecuzioni.
A pochi metri sono aperti i negozi cinesi, gli esercizi commerciali di nordafricani e bengalesi. Da piazza Vittorio, lunedì mattina, arriveranno fin qui anche gli odori e le grida dei mercati che esporranno i prodotti tipici delle cucine dei Paesi più lontani. «Periferici», direbbe, Francesco, eppure così centrali. Nel cuore della sua diocesi, nella Basilica che per prima ascoltò la messa in una lingua slava, dove si celebra anche una messa domenicale con il rito latino secondo il messale di Paolo VI, con una ricchezza artistica che attrae turisti e amanti del bello, con la reliquia della «sacra culla», che ne fa la «Betlemme dell’Occidente», con l’icona della Salus che si dice dipinta dall’Evangelista Luca, la simbologia non sembra casuale.
Crocevia di popoli e di fede, a metà tra i quartieri della Roma bene e di quella povera, tra i profumi delle boutique e l’odore pungente degli scarti, a due passi dalla stazione Termini e dal Viminale, dal Teatro dell’Opera e dagli alberghi di lusso Francesco ha scelto il posto migliore per non rimanere solo e, soprattutto, per poter continuare a parlare a «todos, todos, todos».