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«Quei piccoli gazawi salvati dalla guerra che mi sono rimasti nel cuore»


Dal 2024 a oggi non è cambiato molto. Nella Striscia di Gaza si continua a morire e sono sempre i bambini le vittime preferite di chi gioca a fare la guerra. Non è questione di bandiera o di religione. A soffrire sono sempre loro, i più piccoli, com’è successo il 18 marzo dove – secondo fonti internazionali – in un raid israeliano i bimbi uccisi sono stati oltre cento.

In Italia c’è chi – civile o militare che sia – è in prima linea per salvare e curare queste vittime della violenza degli adulti. Tra loro c’è Maita Sartori, ginecologa della Fondazione Rava, che ha partecipato nel 2024 insieme al marito Pietro Lombardo, anch’egli ginecologo, alla missione “Nave Vulcano”, una grande operazione umanitaria, unica nel suo genere, con lo scopo di portare nel nostro Paese i bambini di Gaza in condizioni più gravi. Ieri come oggi, però, nulla è cambiato.

«È un dolore indescrivibile. Che rende ancora più vivo il ricordo di un’esperienza che mi ha segnato profondamente, non solo come medico ma come persona. Quella sulla nave Vulcano è stata per me la prima missione in uno scenario di guerra e dopo aver curato bambini, bambine, ragazzi e ragazze straziati dalle ferite non posso fare a meno di pensare a loro, che si sono salvati, e ai tanti che ancora perdono la vita sotto le bombe».

Una dottoressa in prima linea

Maita Sartori non è solo una ginecologa, è anche – e soprattutto – una volontaria che, insieme al marito Pietro Lombardo, anch’egli ginecologo, mette da anni la sua professionalità e la sua esperienza al servizio della Fondazione Rava, che opera in situazioni di emergenza, dove spesso ci sono donne e bambini in pericolo. Per questa ragione – dopo aver preso parte alla operazione Mare Nostrum, organizzata per fronteggiare l’emergenza umanitaria dell’eccezionale afflusso di migranti nello stretto di Sicilia (durata dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014) – è stata chiamata a partecipare alla missione di salvataggio dei bambini di Gaza, vittime degli orrori della guerra. Certo, non ha potuto salvarli tutti, ma ne ha curati tanti, strappandoli a una morte certa.

La missione “Nave Vulcano”

All’inizio del 2024 la nave della marina militare Vulcano – convertita in nave-ospedale –  ha attraccato al porto egiziano di Al Arish, dove un’équipe di medici militari e civili (tra cui molti volontari) ha accolto bambini e ragazzi fuggiti dalla Striscia di Gaza durante il conflitto israelo-palestinese: qui i piccoli pazienti e i loro accompagnatori sono stati curati e accuditi e i più gravi sono stati poi trasportati in Italia dove, nel febbraio 2024, i maggiori ospedali del nostro Paese hanno messo a disposizione le proprie strutture, in special modo quelle specializzate nel trattare le amputazioni e le ferite di guerra.

Mai dimenticare l’orrore

«Momenti che non posso dimenticare, che non voglio dimenticare», racconta Maita Sartori, «anzi credo che mantenerne vivo il ricordo oggi più che mai sia doveroso alla luce di quello che sta purtroppo ancora accadendo. E ogni volta che il pensiero torna a quei bambini l’emozione è sempre più forte».

Sulla Vulcano ne sono passati tanti, ciascuno con il suo pesante fardello sulle spalle, fatto di storie brutte che non andrebbero mai raccontate, di scene terrificanti che non andrebbero mai viste, di perdite strazianti che non andrebbero mai vissute, soprattutto se si è così piccoli. Molti senza mamma, senza papà, senza fratelli, ma sempre accompagnati da un adulto (magari un cugino, uno zio o comunque un lontano parente) salivano sul ponte della nave pieni di paura e di speranza, con il dolore sul corpo e nel cuore.

Ferite non solo nel corpo

«Erano pazienti molto gravi, che se non fossero stati curati da noi non avrebbero avuto possibilità di sopravvivere», prosegue la ginecologa, «tutti con grossi problemi di malnutrizione e la maggior parte con ferite che, pur essendo state trattate sul campo, si erano infettate seriamente. I traumi su cui intervenire erano importanti, quasi sempre legati all’esplosione di ordigni o colpi di arma da fuoco».

Il team sanitario della nave-ospedale era completo, con medici di ogni specializzazione: «Accanto a me avevo anestesisti, indispensabili per gli interventi e le medicazioni spesso dolorose; ortopedici (che non si occupavano solo di fratture o amputazioni ma anche di delicate ricostruzioni di tendini); chirurghi plastici, coinvolti nel trattamento delle ustioni e delle ferite più deturpanti; internisti».

I mezzi a disposizione erano all’avanguardia: dalle sale operatorie ai laboratori di analisi, dagli strumenti di diagnostica (Tac, ecografi) alla rianimazione. Tutto a misura di mamma e di bambino.

La maestra e le tre sorelle

«Ricordo una donna, un’insegnante», dice la dottoressa Sartori, «la sua scuola era stata bombardata e un proiettile l’aveva colpita andando a conficcarsi proprio alla base del cranio, in un punto ad altissimo rischio: dopo essere stata stabilizzata aveva bisogno di un intervento di neurochirurgia per rimuoverlo. C’erano anche tre giovani sorelle, tutte e tre con un trauma importante a una gamba: erano figlie di una pediatra, rimasta a Gaza a operare sul campo.

E poi ancora un ragazzo di 16 anni, a cui avevano amputato una gamba dopo un bombardamento e sentiva dolori fortissimi all’arto che non c’era più (si chiama sindrome dell’arto fantasma). Sulla nave è stato curato con la terapia specchio: riflettendo la gamba sana in uno specchio lo abbiamo aiutato a controllare il dolore e prendere coscienza della sua condizione».

Amputazioni, infezioni e denutrizione

Tra le condizioni cliniche più a rischio le amputazioni erano in cima alla lista, non solo per l’entità del trauma subito ma anche per il rischio conseguente di infezioni. «Ricordo una piccola bambina a cui avevano amputato un piede», aggiunge la dottoressa Sartori, «aveva bisogno di medicazioni quotidiane: un momento molto duro per lei, non solo per il ricordo di quello che aveva vissuto ma anche perché il dolore era insopportabile. Qui è stato fondamentale il ruolo degli anestesisti, nel dosaggio dei farmaci per aiutarla a sopportare il male. La piccola era accompagnata dalla madre, anche lei in una brutta situazione, affetta da una forte anemia, una patologia molto diffusa, soprattutto tra le pazienti, anche adolescenti spesso colpite da cicli mestruali irregolari e abbondanti».

 



La gioia del parto

Come unica ginecologa della nave Vulcano Maita Sartori ha seguito anche le donne in gravidanza: «Alcune erano ai primi mesi di gestazione, ma una era al termine e ha partorito proprio durante la missione: un momento molto emozionante e gioioso, tanto che le hanno messo come secondo nome Italia. Una bimba bellissima, la terza figlia di una giovane donna che aveva con sé un’altra piccola di tre anni e mezzo con una gamba amputata».

Noi mamme e papà in camice bianco

Fare il medico in questi frangenti non è sempre facile: quando esci dalle quattro mura protette dell’ambulatorio e ti ritrovi in mezzo a persone che hanno bisogno non solo di cure specifiche, ma proprio di tutto, perché hanno perso tutto, vorresti fare più di quello che la tua professione contempla.

Così le dottoresse si sono trasformate in mamme e i dottori – medici militari compresi – sono stati promossi papà sul campo. La divisa non è riuscita a impedire che si creasse un legame empatico con i piccoli malati. «E anche se parlavamo lingue diverse ci capivamo lo stesso», continua la ginecologa, «i bambini poi, loro sono speciali, sanno come farsi comprendere: bastava uno sguardo, un movimento del corpo, un gesto per lanciare un messaggio. Comunque avevamo con noi due mediatori culturali messi a disposizione dalla Marina militare, figure preziosissime per capire le situazioni e i racconti più complessi. I più grandicelli invece avevano studiato a scuola un po’ d’inglese e con quello riuscivano a imbastire brevi conversazioni».

L’orrore disegnato dai bambini

Ma solo i grandi avevano voglia di parlare, i piccini facevano disegni. E sulla carta trasferivano la disperazione, paura e gli orrori vissuti, tracciando con la matita le bombe che cadevano sulle loro case, con sotto mamma, papà e fratellini. «Immagini terrificanti che li perseguitavano anche di notte, causando incubi frequenti e disturbi del sonno».

Se le notti erano difficili le giornate concedevano spazi lieti: «Anche se eravamo su una nave militare con regole precise da rispettare, i bambini riuscivano a portare la confusione tipica dell’infanzia, regalandoci la leggerezza di cui avevamo bisogno. Si rincorrevano sul ponte, giocavano a calcio con palloni di fortuna, creavano marionette gonfiando i guanti di lattice: ai bambini basta poco per ritrovare il sorriso».

Il biscottino simbolo di pace

Oggi, a un anno di distanza da quella missione, ma all’indomani di un’ennesima strage nella Striscia di Gaza, Maita Sartori ricorda quei bambini. «Ho lavorato sulle navi militari, sono stata in Africa a operare in contesti rurali molto poveri, ho visto morire tanti bambini purtroppo. Ma questo pensiero, mi sprona ogni giorno ad andare oltre, cercando di fare sempre meglio il mio mestiere». Il momento più bello? «Quello in cui i bambini facevano con me un gesto che compivano abitualmente con la loro mamma: come mordere un biscotto e offrirmene un pezzetto. Voleva dire: “sto bene con te, mi fido, ti voglio bene”».

 

nella foto, Maita Sartori con una neonata e la madre assistita durante il parto sulla nave Vulcano.





Dal sito Famiglia Cristiana

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