La domanda è bizzarra rispetto alla serietà
e all’antichità della prassi penitenziale.
Nessun Papa ha emanato disposizioni
del genere e il pesce in questione
era d’acqua dolce (laghi e fiumi),
secondo le testimonianze del monastero
di Subiaco dal secolo XIV.
L’astinenza,
in particolare dalla carne, risale all’Antico
Testamento e per alcune circostanze
allo stesso mondo pagano, anche
se ha avuto ampio sviluppo nel monachesimo
cristiano d’Oriente e Occidente.
Una severa alimentazione combatteva
le tentazioni e la concupiscenza
della carne, favorendo l’ascesi e il dominio
spirituale del corpo.
Preme piuttosto sottolineare che il digiuno
con l’astinenza – cioè un pasto al
giorno, evitando determinati cibi – è
congiunto alla preghiera a Dio e all’elemosina:
un trio che, già presente nell’Antico
Testamento, contrassegna la
pratica penitenziale della Chiesa.
È quanto viene affermato nella nota
pastorale della Conferenza episcopale
italiana del 1994, Il senso del digiuno e
dell’astinenza. Nella penitenza l’uomo è
coinvolto nella sua totalità di corpo e
spirito: si converte a Dio e lo supplica
per il perdono dei peccati, lodando e
rendendo grazie; non disprezza il corpo,
lo modera, e rinvigorisce lo spirito,
non si chiude in sé stesso ma vive la solidarietà
che lo lega agli altri uomini.
Ma perché queste tre espressioni rientrino
nella prassi penitenziale della
Chiesa devono avere un’anima autenticamente
religiosa, anzi cristiana. È quanto
si propone la citata nota pastorale, in
applicazione di una delibera del 1985,
sollecitando una convinta ripresa della
prassi penitenziale tra i fedeli.
Il digiuno dei cristiani trova il modello
e il significato originale in Gesù.
Il Signore
non impone una pratica di digiuno,
ma ne ricorda la necessità contro il
maligno e nella sua vita ne indica lo stile
e l’obiettivo. Quaranta giorni di digiuno
precedono le tentazioni nel deserto,
che superò con la ferma adesione alla
parola di Dio: «Non di solo pane vivrà
l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla
bocca di Dio» (Mt 4,4).
Il riferimento a Cristo e alla sua morte
e risurrezione è essenziale per definire
il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza
come di ogni forma di mortificazione.
Nella tradizione cristiana, sotto
gli influssi monastici, le comunità
hanno delineato forme concrete di penitenza,
il digiuno con un solo pasto nella
giornata, seguito dalla riunione serale
per l’ascolto della parola di Dio e la preghiera
comunitaria.
Queste tre cose
(preghiera, digiuno, misericordia) sono
una cosa sola, «nessuno le divida», scrive
san Pier Crisologo. Con il IV secolo si
organizza il tempo di Quaresima per catecumeni
e penitenti. San Leone Magno
scrive che per un vero digiuno cristiano
è necessario astenersi non solo dai
cibi ma soprattutto dai peccati.
Con il Vaticano II si chiede un aggiornamento
pastorale nelle motivazioni e
nelle forme, soprattutto mediante le
opere di carità, giustizia e solidarietà.
Nella distribuzione dei tempi e dei giorni
sono privilegiati il triduo pasquale, in
particolare il Venerdì santo e il Mercoledì
delle ceneri, oltre l’astinenza dalla carne
nei venerdì dell’anno.
Le disposizioni
sono nel canone 1249 del Codice di
diritto canonico del 1985, ma le Conferenze
episcopali possono fissare i giorni
e le modalità tenendo conto della condizione
delle persone anziane o malate.
Con la pratica penitenziale del digiuno
e dell’astinenza la Chiesa vive l’invito
di Gesù ai discepoli ad abbandonarsi
alla provvidenza di Dio (conclude la nota
pastorale) senza ansia per il cibo: «La
vita vale più del cibo e il corpo più del
vestito… Non cercate perciò che cosa
mangerete e berrete, e non state con
l’animo in ansia… Cercate piuttosto il
regno di Dio, e queste cose vi saranno
date in aggiunta» (Lc 12,23.29.31).