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«Professione padre», finalmente presente e super coinvolto



Alberto Pellai, medico psicoterapeuta

Più partecipi e con un desiderio maggiore di vivere la paternità: la generazione dei padri italiani nati tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 è la più presente di sempre. A confermarlo anche i dati dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) che evidenziano come dal 2019 al 2022 gli uomini che hanno usufruito di almeno un giorno di congedo parentale sono aumentati del 15%. Cosa
sta cambiando? Lo chiediamo ad Alberto Pellai, medico psicoterapeuta e padre di quattro figli.

Sono “nati” dei “nuovi papà”?

«La paternità è diventata una dimensione identitaria. Un tempo gli uomini si definivano per la professione, oggi invece i padri si raccontano anche come genitori. L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dato una spinta incredibilmente trasformativa rispetto all’identità del genere maschile. Non a caso oggi parliamo di co-genitorialità condivisa: la nuova paternità ha anche cambiato la logica della conciliazione vita-lavoro, come evidenzia proprio l’aumento dei congedi».

Cosa è cambiato?

«Se un tempo il padre era l’uomo delle regole, e la paternità era caratterizzata dalla responsabilità e dalla autorità normativa, oggi l’autorevolezza è affettiva: i padri sono responsabili ma anche coinvolti nella vita di un figlio, disponibili sul piano emotivo. Prima si diceva: “Non disturbare il papà perché è stanco, ha lavorato”, mentre oggi l’educazione non è più solo materna. Quando nascono i figli, i papà hanno la possibilità di nascere a loro volta: è, infatti, grazie a un figlio che si genera una nuova versione di noi stessi. Mi pare allora che la sfida più grande sia fare tesoro di ciò che ci è accaduto quando eravamo figli evitando gli “errori da non ripetere”, quelle cose che abbiamo vissuto in prima persona e che ci hanno fatto male».



Sono “nati” dei “nuovi papà”?

«La paternità è diventata una dimensione identitaria. Un tempo gli uomini si definivano per la professione, oggi invece i padri si raccontano anche come genitori. L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dato una spinta incredibilmente trasformativa rispetto all’identità del genere maschile. Non a caso oggi parliamo di co-genitorialità condivisa: la nuova paternità ha anche cambiato la logica della conciliazione vita-lavoro, come evidenzia proprio l’aumento dei congedi».

Cosa è cambiato?

«Se un tempo il padre era l’uomo delle regole, e la paternità era caratterizzata dalla responsabilità e dalla autorità normativa, oggi l’autorevolezza è affettiva: i padri sono responsabili ma anche coinvolti nella vita di un figlio, disponibili sul piano emotivo. Prima si diceva: “Non disturbare il papà perché è stanco, ha lavorato”, mentre oggi l’educazione non è più solo materna. Quando nascono i figli, i papà hanno la possibilità di nascere a loro volta: è, infatti, grazie a un figlio che si genera una nuova versione di noi stessi. Mi pare allora che la sfida più grande sia fare tesoro di ciò che ci è accaduto quando eravamo figli evitando gli “errori da non ripetere”, quelle cose che abbiamo vissuto in prima persona e che ci hanno fatto male».

Quando e come è avvenuto il cambio di passo?

«Il passaggio grosso è avvenuto negli anni Settanta del Novecento, con il movimento femminista. Su richiesta delle compagne, i padri hanno fatto uno scatto in avanti in tema di parità, nei diritti e doveri. Nelle generazioni successive la cura è passata dall’essere una richiesta delle mogli a un desiderio paterno, messo in gioco dai figli».

Verso quale “papà” andiamo?

«Il modello è in costruzione, in bilico fra il rischio del “padre peluche” definito da Daniele Novara e il “padre evaporato” di Massimo Recalcati: l’orizzonte è essere normativi e affettivi allo stesso tempo ma, non avendo modelli precedenti, i padri vivono anche alcune fragilità».

Come si sostiene la paternità?

«Molte aziende stanno lavorando sulla genitorialità dei dipendenti. Occorre, poi, promuovere la figura dell’uomo nei contesti educativi, come nei Paesi nordici dove la professione educativa è qualificata e qualificante. Ancora, serve tanto sostegno alla genitorialità precoce: i servizi del percorso nascita sono costruiti sui soli bisogni delle mamme, mentre dovrebbero avere un focus anche sulla paternità. Nella nostra società i papà non sono “pensati”: ne consegue la loro difficoltà a coinvolgersi nel ruolo. Gli uomini spesso non si autorizzano nemmeno a raccontare agli amici il vissuto intimo e i legami affettivi che nascono con la paternità, è incredibile constatare quanta resistenza culturale esista ancora oggi di fronte al valore della tenerezza nel mondo maschile».

Su questo aspetto, che ruolo hanno le donne?

«Negli uomini a volte la genitorialità non si attiva proprio per la mancanza di delega, capacità di affidarsi e fidarsi delle mamme. Sulla scena di una nascita compaiono troppe donne, zie e nonne incluse, che fanno sentire l’uomo inadeguato, quindi espulso. Serve un lavoro sociale, collettivo, per far emerge il tema paternità».





Dal sito Famiglia Cristiana

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