Lasciando da parte le strumentalizzazioni politiche, che non mancano mai, men che meno in un momento come questo di grande tensione tra potere politico e giudiziario, il procedimento a carico di Matteo Renzi e di altri dieci pone due spunti di riflessione che riguardano tutti noi come utenti del sistema giustizia.
Il caso si è concluso il 19 dicembre con la decisione di non di non luogo a procedere perché “gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna” per tutti gli indagati.
Il primo dato che salta all’occhio è il tempo oggettivamente lungo di un’udienza preliminare, durata due anni e otto mesi. La lunghezza dei procedimenti è notoriamente per tutti non solo per i politici una pena aggiuntiva e indebita: se questo proscioglimento fosse arrivato in tempi brevi la lesione di immagine per gli interessati sarebbe stata riparata molto prima e avrebbe inciso meno gravemente.
Ci si attenderebbe, in un Paese in cui il cantiere giustizia è sempre aperto e in cui le riforme si susseguono a ritmo incessante, che al vertice delle priorità ci fosse la questione di come accorciare i tempi dei processi senza ledere garanzie, e che tempo, energie e risorse fossero impiegate per perseguire questo obiettivo che è non da ora il più grave problema che pesa sul sistema giudiziario italiano, tema che però non sembra urgente, a giudicare dalla road map delle riforme in discussione.
Il caso Renzi, a quel proposito, potrebbe anche essere letto tra l’altro come una prova che l’asserito appiattimento del giudice sulla posizione del collega Pm, che starebbe alla base dell’insistenza sulla separazione delle carriere per chi la sostiene, non è poi un dogma: Il Gup di Firenze ha deciso accogliendo le ragioni delle difese, non quelle della Procura.
L’impatto della riforma Cartabia
La formula del proscioglimento merita un’ulteriore riflessione: è infatti frutto del rafforzamento del filtro che la riforma Cartabia ha assegnato al giudice per le indagini e per l’udienza preliminare al momento di valutare il proscioglimento o il rinvio a giudizio richiesto dalla Procura. Fino all’ottobre 2022 il criterio che la legge assegnava al Gip/Gup per negare il rinvio a giudizio, era o l’infondatezza dell’accusa o il fatto che il processo sarebbe risultato superfluo perché non in grado di apportare ulteriori prove davanti al giudice.
Da quella data invece la legge (Riforma Cartabia) chiede al Gip/Gup di negare il rinvio a giudizio e pronunciare non luogo a procedere ogni volta che non ha elementi sufficienti a pronosticare ragionevolmente che la sentenza del processo a fine dibattimento sarà di condanna.
In sostanza la nuova legge ha affidato al Giudice per le indagini e l’udienza preliminare un filtro più forte, nell’ottica di iniziare meno processi dall’esito incerto, fermo restando il fatto che comunque la prova piena tuttora si forma davanti al giudice del dibattimento e che quella data dal Gip quando dispone il giudizio è una previsione, con un margine di fallibilità.
Nel caso Renzi questo filtro rafforzato ha funzionato ed una buona notizia. Si tratta di una norma garantista, favorevole all’indagato, che rischia meno di subire un lungo processo che finisca in assoluzione, ed anche utile a non ingolfare il sistema spendendo risorse umane e denari pubblici in processi che si possono evitare.
Servono risorse o si crea un collo di bottiglia
Resta, però, un nodo critico: proprio questo punto della riforma può impattare sulla durata del procedimento proprio a livello di udienza preliminare. Un filtro rinforzato è un aggravio di lavoro, richiede tempo e risorse. E va andando a insistere su un ufficio, quello del Gip/Gup, nevralgico nel sistema che, per il suo particolare ruolo, è gravato di tutte le urgenze. Nella maggior parte dei distretti soffre di carenza di organico tra magistrati e amministrativi, e finisce per rischiare di allungare i tempi, se non si trova un modo di distribuirvi risorse proporzionate ai nuovi compiti che la riforma Cartabia rende senza dubbio più gravosi.
Dal momento che le piante organiche non sono mutate nel tempo e che sovente sono scoperte, è facile comprendere che su questa complessità a livello di organizzazione e allocazione di risorse si dovrebbe ragionare. Sapendo comunque che non ci sono soluzioni semplici, perché formare magistrati richiede tempo e la funzione di Gip/Gup per la legge vigente non può essere assunta alla prima nomina. A riprova che il problema esiste, la riforma Nordio, che chiede un collegio di tre Gip per autorizzare una misura cautelare personale, è stata approvata ma dilazionata di due anni, perché al momento non ci sono le persone per attuarla.
Quanto al lavoro di Procura (i cui Pm nel caso in questione sono stati anche denunciati dall’indagato, indagati a loro volta e archiviati in altri uffici) una cosa non si comprende bene: se l’obiettivo è quello di avere un Pubblico Ministero che ragiona con lo stesso garantismo del giudice, che abbia tutti gli strumenti per prevederne le decisioni nell’ottica di non iniziare processi che si possono evitare, perché si vuole a tutti i costi separare le carriere di Pm e Giudici anziché formarli nella stessa cultura, tanto più che quel tipo di riforma non accorcerà di un minuto i tempi dei processi?
FINANZIAMENTO AI PARTITI, REGOLE TRASPARENTI PER PREVENIRE OPACITÀ E INDAGINI
La seconda riflessione riguarda il reato contestato: il finanziamento illecito ai partiti. Anche questa questione in Italia è annosa: tolto il finanziamento pubblico ai partiti, sull’onda dello sdegno dell’opinione pubblica per la corruzione a seguito di Mani pulite, diventato marginale il 2 per mille dell’Irpef, impoverito dalla disaffezione dei cittadini che di rado scelgono di destinare ai partiti la loro quota in detrazione fiscale, resta il finanziamento privato. In mancanza di norme che regolamentano le cosiddette lobby, in mancanza di norme sul conflitto di interessi, che il presidente dell’Autorità anticorruzione Busia da tempo chiede, il sistema rischia di peccare di scarsa trasparenza.
Raffaele Cantone, già presidente dell’Autorità Nazionale anticorruzione, ha nel corso degli anni anni ripetutamente sollevato il problema. L’ultima volta in un’intervista alla Stampa un mese e mezzo fa: “Le fondazioni create a latere dei partiti”, spiegava, “nascono con nobili finalità culturali e di promozioni di idee politiche ma in molti casi diventano un modo per finanziare in modo illecito e surrettizio la politica. La legislazione, pur con le novità timide introdotte dalla “Spazzacorrotti”, non è in grado di garantire la trasparenza dei finanziamenti e paradossalmente questa situazione fa danno anche a quelle fondazioni che vogliono fare davvero politica e non raccattare denaro”.
Una normativa che consenta una maggiore trasparenza potrebbe essere una strada su cui ragionare nell’ottica di migliorare i controlli preventivi e ridurre opacità, reali o apparenti, da cui possono, poi, scaturire indagini penali.