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Pasqua in Terra Santa: la prova dei cristiani stretti tra guerra, insicurezza e povertà

C’è chi è costretto ad emigrare, chi cerca di rimanere, mentre non si ferma il conflitto a Gaza. Una riflessione sull’essere cristiano oggi lì dove Cristo è morto e risorto

Roberto Cetera – Gerusalemme

Il pellegrino che arriva per la prima volta a Gerusalemme rimane spesso sorpreso dal vedere nella stessa basilica il luogo della crocifissione e quello della resurrezione, a pochi metri l’uno dall’altro. L’iconografia cinematografica di un alto monte fuori della città a volte sopravanza le parole eppur chiare dei Vangeli: «lì nei pressi era una tomba…». Ci piace pensare che l’originaria scelta di costruire un unico santuario, anziché due chiese distinte e contigue, abbia un senso non solo di fedeltà storica e architettonica, ma anche teologico.  Quello cioè di indicare al credente il legame di necessarietà tra morte e resurrezione. Non si risorge da vivi. Occorre passare attraverso la porta stretta della morte.

Con il suo inevitabile carico di tristezza, di paura, di rassegnazione, che anche Gesù, nella sua profonda dimensione umana, sperimentò.   E questo inevitabile nesso tra morte e resurrezione è il pensiero in queste ore più ricorrente tra i cristiani che ancora oggi vivono nella Terra di Gesù. Quelli che superando le barriere dell’occupazione hanno potuto raggiungere i luoghi della passione del Signore e quelli che non ci sono riusciti.

La povertà e l’insicurezza

Oltre ai limiti alla libera circolazione tra Palestina ed Israele, per molti cristiani l’impedimento a raggiungere i luoghi santi è stato quest’anno di ordine economico: molte famiglie palestinesi sopravvivono dal 7 ottobre ’23 con redditi minimi se non nulli, e viaggiare costa.  E poi la paura. La paura di entrare in una terra ostile. La paura di attraversare quella Cisgiordania che negli ultimi mesi è stata teatro di violenze indicibili. La paura di trovarsi esposti agli attacchi sempre più frequenti e duri dei settlers ebraici protetti dall’esercito israeliano. Un clima che non lascia spazio alla speranza.

I cristiani di Terra Santa sono estranei a questo regime di violenza, sono gente pacifica. Che però respira lo stesso clima di tensione e di paura. Aggravato dal fatto di essere una minoranza, sempre esposta all’accusa di neutralismo e alle provocazioni dei fondamentalisti, specie ebraici. C’è chi non ce la fa e parte. Dall’inizio della guerra più di 100 famiglie cristiane nella sola Betlemme se ne sono andate. Facile dire: «non partite, non lasciate», perché questa terra è santa solo fintanto vi sono cristiani: le pietre vive che animano quelle sacre della memoria, dei santuari. Ma si può biasimare chi decide di partire per proteggere i propri piccoli, per assicurare ai propri figli un futuro che qui gli è negato? «Qui non c’è futuro» è la frase che ci sentiamo ripetere qui ogni giorno; come confutarla?  Una «terra non promessa», come scrive la brava scrittrice Lucia D’Anna raccontando la cappa di piombo che sovrasta la vita di chi vive qui in questi mesi di orrore; una terra che non riesce più a vedere i segni del passaggio pasquale ad una vita nuova, che non riesce più a vedere una sua possibile resurrezione.

Concomitanza temporale

Eppure in questa Pasqua un segno c’è: da poco si è concluso il Ramadan, questi sono i giorni di Pesach e la Pasqua dei cristiani latini ed orientali cade nella stessa data: come se, in questa coincidenza temporale, lo Spirito dicesse «Piantatela. Io sono il Dio di tutti. Io sono il Dio della pace, non della guerra».   E poi quel piccolo eroico gruppo di cristiani che resistono a Gaza.  Oltre il compound della parrocchia della Sacra Famiglia, possono scorgere solo distruzione e morte. Il rumore agghiacciante delle esplosioni si fa sempre minacciosamente più vicino a loro.

«Ho una sola ma fondamentale consolazione — dice da Gaza il giovane Suhail Abu Dawood —: che non siamo soli. Viviamo da un anno e mezzo nella casa del Signore. È la sua presenza, in quel tabernacolo, accanto a noi, che ci fa resistere. E le telefonate di Papa Francesco: nella sua voce sentiamo che tutti i cristiani della terra sono qui a Gaza con noi».  La fede di questo ragazzo è granitica e nutre la speranza. Ma la prova che i cristiani di Terra Santa devono sopportare non è solo fisica, materiale.  È anche una prova di fede: un cristiano non può che vivere nella speranza. Saper accogliere nella propria vita la vicinanza tra il Calvario e la Tomba della Resurrezione, l’ineluttabilità del passaggio attraverso la morte per poter risorgere. Questa è la sfida che i cristiani di Terra Santa sono chiamati ad affrontare. E a loro ogni cristiano nel mondo in queste ore deve guardare. Con empatia. Con ammirazione. Con amore.



Dal sito Vatican News

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