Don Roberto Regoli.
Nel raccontare la figura di un papa, e tanto più nel momento in cui ha chiuso la sua parabola terrena ed è tornato alla Casa del Padre, viene spontaneo sottolineare tutte le specificità che hanno caratterizzato il suo Pontificato e la sua personalità. Di papa Francesco ricordiamo a gran voce l’attenzione ai più poveri e fragili e i temi dei due anni giubilari: quello della Misericordia e quello, in corso, della Speranza. Se lo sguardo però resta troppo concentrato sugli anni in questione, si corre il rischio di perdere di vista l’ottica più opportuna per “rileggere” qualunque pontificato: quella che lo comprende nella storia della Chiesa, in cui si colloca tra un prima e un dopo. Per una prospettiva più ampia, abbiamo intervistato lo storico don Roberto Regoli, professore ordinario della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana. «In questi giorni», spiega don Regoli, «in tanti hanno parlato di eccezionalità, unicità e di forza rivoluzionaria del pontificato di Francesco, a volte banalizzandolo nei contenuti, come se fosse un extraterrestre o un extraecclesiastico. Facendo passare per nuovo anche ciò che è antico. È opportuno invece inserirlo dentro la storia della Chiesa per capire a meglio il suo contenuto. Solo in questo modo si comprende che Bergoglio ha portato avanti istanze della sua storia personale ecclesiale: un vescovo argentino e dell’America Latina. Un vescovo che era stato al centro delle scelte ecclesiali di quel continente, che ha voluto guardare in maniera preferenziale alle necessità dei poveri e a proporre una Chiesa missionaria dentro gli antichi territori pensati cattolici, ma che non lo sono più. È da ricordare che era un gesuita e la Compagnia di Gesù nel tempo successivo al Concilio Vaticano II ha compiuto la cosiddetta scelta preferenziale per i poveri. Bergoglio non è un caso, un miracolo o un errore della storia, ma il frutto di un percorso. Anche di quello che si inserisce nei pontificati che lo precedono».
In particolare, se guardiamo al Novecento ritroviamo temi fondamentali che vediamo svilupparsi nel corso di diversi papati. Viene in mente innanzitutto il tema della pace e strettamente connessi quelli del multilateralismo e del disarmo…
«Addirittura sin dallo scoppio della prima guerra mondiale (1914-1918) tutti i papi del Novecento si sono impegnati a disarmare la guerra, togliendole ogni possibile pretesa di legittimazione religiosa. Non esiste una guerra santa. Benedetto XV definì la guerra una “inutile strage” e Pio XII dichiarò che “Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra”. E nella stessa direzione sono andati i successori. È importante ricordare Giovanni Paolo II che avviò gli incontri di preghiera delle religioni ad Assisi nel 1986 per far capire al mondo che le religioni non sono causa di guerre, ma comunità per la pace. In questo senso Benedetto XVI dichiarerà addirittura che “la non violenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità”. E in questo percorso non solo si inserisce papa Francesco, ma lo promuove con la stessa convinzione dei suoi predecessori di fronte a quella che lui ha chiamato con ragione e successo “terza guerra mondiale a pezzi”. La sua diplomazia ha privilegiato il multilateralismo, con un sempre maggiore impegno da parte della Segreteria di Stato vaticana, e un bilateralismo creativo come con l’impiego di cardinali non diplomatici a fini pacificatori. Pensiamo al cardinale Ortega per una mediazione tra USA e Cuba e al cardinale presidente della Cei Zuppi per la guerra in Ucraina».
Il diritto internazionale in questa fase storica sembra sempre più minacciato. Può essere di aiuto inquadrare le parole e gli sforzi di papa Francesco in un contesto più ampio?
«A livello diplomatico papa Francesco si è inserito nella tradizione curiale che ha trovato. Come i suoi predecessori, a partire da Paolo VI, ha chiesto il rispetto del diritto internazionale e il coinvolgimento dell’ONU. Sia lui, sia il suo segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, nei primi anni del pontificato affidano un ruolo dirimente alle Nazioni Unite sulle condizioni e la liceità degli interventi militari, cioè sull’uso della forza atti a formare una forza di interposizione che blocchi le violenze e i combattimenti. L’ONU riceve alta considerazione nei discorsi pubblici del papa e del suo cardinale segretario di Stato. La Santa Sede ritiene che per compiere azioni di forza si debba richiedere il consenso internazionale. L’ONU, però, è bloccata dai veti interni incrociati. Lo stesso Parolin si lascia andare ad un pubblico richiamo nel quale considera l’ONU una organizzazione caduta nell’“apatia” e nella “irresponsabilità” e per giunta “passiva dinanzi alle ostilità subite da popolazioni indifese”. Di fronte alle grandi crisi internazionali la Santa Sede rimanda all’autorità dell’ONU, cioè indica un metodo, ma non una soluzione. Ma quel metodo non ha portato frutto, perché bloccato nel fuoco incrociato di veti. A fronte di questa situazione il Papato ha voluto giocare anche da solo alcune mediazioni. Vanno segnalati i buoni uffici posti dalla Santa Sede nel processo di normalizzazione delle relazioni bilaterali cubano-statunitensi, rotte dopo la rivoluzione castrista, e che giunse ad un accordo nel 2014».
Come definirebbe la diplomazia di Francesco?
«Durante il pontificato di Francesco emerge un tratto tipico della sua diplomazia, secondo il quale a fianco degli usuali canali diplomatici, il papa coinvolge altri personaggi, nei casi conosciuti alcuni cardinali, come Ortega per Cuba e Zuppi per l’Ucraina, per attivare una diplomazia più personale e personalizzata. Questi canali vengono comunque ricondotti sotto il lavoro della Segreteria di Stato. Si sa di altri contesti in cui il papa e la sua diplomazia ai nostri giorni sono attivi per mediare in senso largo, come nel Sud-Sudan e in Congo, ma di cui non si hanno resoconti sicuri».
Il Documento sulla Fratellanza Umana del 2019, firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, ci introduce al dialogo interreligioso e a un cammino lungo.
«Seguendo l’impostazione di Giovanni Paolo II, il dialogo interreligioso è considerato un presupposto per raggiungere una pace vera e duratura a livello internazionale. In un mondo minacciato dal terrorismo di matrice fondamentalista ad inizio XXI secolo e da guerre regionali e internazionali oggi, il dialogo interreligioso, come quello interculturale, viene presentato quale vera e propria «necessità vitale». In questa prospettiva Francesco insiste su ciò che accomuna in ultimo ogni uomo: l’umanità stessa. È un linguaggio laico che vuole includere ogni possibile interlocutore. Un linguaggio che vuole però essere religioso in nome del fatto che ogni essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio».
Certamente la Laudato Sì è stata un’Enciclica importante per comprendere l’urgenza di occuparsi della Casa comune e soprattutto per mettere a fuoco come sistemi naturali e sistemi sociali siano profondamente interconnessi. Come “collocare” questa attenzione preziosa di papa Francesco nella storia della Chiesa?
«La “Laudato sì” è un tipico documento di Francesco. Indubbiamente già da prima c’era questa sensibilità. Si pensi alla dichiarazione del 2006 tra Benedetto XVI e il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo sui comuni sforzi per la conservazione dei valori morali in tutto il mondo, per la tutela dei diritti civili e delle libertà, per resistere alla guerra e al terrorismo e per l’appunto per proteggere l’ambiente dall’inquinamento. Detto questo, va però riconosciuto che il tema ecologico è uno dei contributi più propri di Bergoglio, che ha trovato importanti riscontri nella società civile. L’anziano Bergoglio ha saputo intercettare una sensibilità sempre più presente nell’Occidente. Sarà anche una sua eredità. Ma bisognerà capire come sarà intesa in un mondo occidentale che sta cambiando le sue politiche green».
C’è poi la “più grande grazia del XX secolo” come san Giovanni Paolo II ha definito il Concilio Vaticano II. Ci aiuta a tracciare la linea che parte dalla Chiesa conciliare e arriva fino a papa Francesco?
«Se mi si permette una battuta, vorrei manipolare un detto del papa. Con Francesco abbiamo assistito ad un Concilio Vaticano III “a pezzi”. Si è fatto promotore di stili e sensibilità che hanno lanciato agende ecclesiali che nei decenni precedenti vivevano per lo più in piccoli circoli. Indubbiamente Bergoglio ha parlato del Vaticano II, ma allo stesso tempo – per la sua mentalità – ha preferito guardare in altre direzioni».