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Palermo, la verità nascosta di Cetti Zerilli: «Così il fascismo insabbiò un femminicidio»


Dall’inizio dell’anno, il giornalista palermitano Salvo Palazzolo (inviato del quotidiano La Repubblica) vive sotto scorta, anche a causa degli articoli di denuncia sulla mafia imprenditrice e sulla borghesia mafiosa.

Vincitore del “Premio giornalistico Mario Francese”, Palazzolo è l’autore del recente romanzo d’inchiesta L’amore in questa città, edito da Rizzoli. L’avvincente volume narra la storia dimenticata e censurata di Cetti Zerilli, studentessa palermitana della Facoltà di Lettere, uccisa nel 1935, nei locali dell’Università.
Perché è stata insabbiata l’uccisione della studentessa palermitana Cetti Zerilli?

«Nessuno a Palermo conosce la storia di Cetti Zerilli, trovata cadavere all’università il 17 settembre 1935, uccisa con tre colpi di pistola. Accanto a lei, c’era il corpo di un uomo in camicia nera e stivaloni. La polizia si affrettò a dire che si era trattato di un omicidio-suicidio e sulla vicenda venne imposta la censura. Ma sin da subito il padre di Cetti presentò esposti alla magistratura, chiamando in causa un gerarca fascista e parlando chiaramente di una messinscena rispetto a quella scena del delitto».

Cosa avrebbe potuto comportare per il fascismo la verità su quell’inquietante femminicidio dentro l’Università di Palermo?

«La storia che ho scoperto porta dritto agli intrighi del potere fascista a Palermo. Cetti aveva scoperto qualcosa, minacciava di denunciarlo pubblicamente. Ecco perché era così urgente cancellare il nome e la storia di una ragazza. Ma anche dopo la guerra nessuno scrisse di lei, mi sono chiesto perché. Probabilmente, qualcuno dei protagonisti del depistaggio e dell’insabbiamento era riuscito a riciclarsi nell’Italia repubblicana».

Quali documenti sul caso Zerilli hai trovato negli archivi e nelle biblioteche?

«A parlarmi dell’omicidio all’università fu un vecchio cronista palermitano, Aurelio Bruno, il giornalista che fece lo scoop sul caffè alla stricnina di Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano. Me ne parlò vent’anni fa, ma non mi disse il nome della giovane uccisa, né specificò quando era accaduto il delitto. All’epoca non trovai nulla, glielo dissi ad Aurelio Bruno, e lui mi rimproverò: “Com’è possibile che non sei riuscito a ricostruire una vicenda così eclatante?” Non c’era davvero nulla sui giornali. E non sapevo dove cercare. Solo di recente, ho ritrovato all’Archivio di Stato alcuni atti di un giudice istruttore e di un poliziotto che provarono a fare delle indagini, ma presto furono fermati».

Dopo la caduta del fascismo, si sono susseguiti 80 anni di misteri dell’Italia repubblicana. Quali sono i pezzi mancanti?

«A Palermo sono scomparse tante parole subito dopo gli omicidi eccellenti. Trafugarono anche alcune lettere di Cetti Zerilli. Tanti anni dopo, sono scomparsi gli appunti del poliziotto Nino Agostino, il diario di Giovanni Falcone, l’agenda rossa di Paolo Borsellino. C’è stato del metodo nei delitti eccellenti di Palermo: non bastava uccidere uomini coraggiosi, era necessario cancellare le loro riflessioni, le loro intuizioni».

Come vive un cronista sotto scorta?

«Continuo a raccontare Palermo come sempre ho fatto, per le strade della città. L’unico modo che conosco di fare il giornalista, a contatto con le storie delle persone. Storie di piccoli grandi eroi che nella quotidianità si impegnano per il cambiamento».

Nei mesi scorsi hai ricevuto il Premio Mario Francese, intitolato al coraggioso cronista ucciso nel gennaio del 1979. Che esempio ha dato Mario Francese al giornalismo italiano?

«Mario Francese, valoroso cronista del Giornale di Sicilia, comprese per primo l’aggressione dei nuovi boss, i Corleonesi di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Comprese che l’organizzazione mafiosa stava cambiando pelle e relazioni, ma i suoi articoli non furono compresi fino in fondo dalla società, dalle istituzioni. Ho la sensazione che anche oggi ci sia una pericolosa sottovalutazione di quello che è attualmente il fenomeno mafioso. La mafia non fa più notizia, e invece credo sia ancora insidiosa perché si infiltra in silenzio nella società, nell’economia e nella politica».

Il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia ha parlato di una potente borghesia mafiosa, concetto introdotto dagli studiosi Mario Mineo e Umberto Santino negli anni Settanta.

«Le ultime indagini di polizia e carabinieri raccontano di un pezzo di società siciliana che continua a cercare i mafiosi. Alcuni imprenditori chiedevano ai boss di recuperare crediti, altri di avere il monopolio di un determinato prodotto. Alcuni politici chiedevano invece sostegno elettorale. Il professore Salvatore Lupo aveva parlato un tempo del “bisogno di mafia”, categoria che ha trovato una drammatica conferma. È necessario dunque continuare ad alimentare l’impegno culturale contro la mafia. Come è necessario continuare a cercare la verità su tanti martiri ancora senza giustizia».





Dal sito Famiglia Cristiana

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