Salvarono circa due mila persone senza imbracciare le armi, con un impegno duro e concreto che non prevedeva ricompense ma, semmai, sempre e soltanto rischi. Uomini e donne, laici e sacerdoti, cristiani convinti che potesse esserci un’alternativa disarmata alla violenza e all’oppressione: ecco chi erano i membri di Oscar, apparentemente un insospettabile nome di persona, in realtà acronimo di Organizzazione Scout Collocamento Assistenza Ricercati, dove poi il termine “scout” fu prudentemente sostituito con “soccorso”.
Due anni di ricerca e approfondimenti hanno portato la dottoressa Carla Bianchi Iacono e lo storico e archivista Stefano Bodini a scrivere Oscar. Storie di una resistenza disarmata. 1943-1945, pubblicato da Ente Educativo Baden con TipiScout Edizioni. Un testo di grande importanza perché svela la genesi e l’architettura dell’organizzazione, sulla quale – per motivi di sicurezza – erano state conservate pochissime memorie e documenti.
Il piccolo gruppo iniziale di Oscar, una ventina di aderenti, deve la sua nascita a don Andrea Ghetti, sacerdote “ribelle per amore” durante la Resistenza, fra i padri dello scautismo lombardo, nonché primo direttore de Il Segno, il mensile della Chiesa ambrosiana. Allargatosi con l’apporto di alcune Aquile Randagie, gli scout che durante il fascismo portarono avanti clandestinamente le attività del movimento, Oscar coinvolse fino a un centinaio di persone della diocesi e non solo, sacerdoti come don Enrico Bigatti, don Natale Motta, don Aldo Mauri, don Aurelio Giussani, don Pietro Landrini, don Carlo Gnocchi e don Riccardo Varesi, e moltissimi laici, fra cui Pia e Bona Ucelli, protagoniste di prima linea della resistenza milanese: «Una fitta ragnatela di persone fidate, donne e uomini dalla Federazione Universitaria Cattolica Italiana Fuci, dall’Azione cattolica, di singoli cattolici e antifascisti», dicono gli autori del libro.
«A Milano, in quei 600 giorni di terrore, c’erano morti ammazzati per strada, rappresaglie e arresti senza motivo, nel carcere di San Vittore ein altri luoghi si compivano torture indicibili su uomini e donne inermi, tanto che il cardinale Schuster si sentì in dovere di scrivere lettere di protesta al commando fascista e nazista perché quell’infamia terminasse», nota Bianchi Iacono. Nonostante tutto, Oscar fece la scelta profondamente cristiana di rifiutare le armi. «E proprio nel “sudarsi la libertà” senza armi, Oscar ha lasciato una traccia, un certo spirito di collaborazione utile poi anche per la successiva ricostruzione del Paese», aggiunge Bodini.
In chiesa, in confessionale, a scuola dove insegnava, don Andrea Ghetti riceveva costantemente richieste di aiuto da parte di ricercati. Per procedere con i salvataggi erano però necessari documenti falsi, lasciapassare fasulli, e il percorso verso la Svizzera doveva essere studiato nel più efficacie dei modi, dalle tappe di avvicinamento al luogo di superamento del confine. Servivano accompagnatori, case che facessero da punti appoggio… un sistema articolato quanto rischioso per le possibilità, non certo remota, di essere scoperti. Eppure, «noi non spariamo, noi non uccidiamo… noi serviamo!» era uno dei motti di Oscar, e così si attivava, in maniera collaborativa e nonviolenta, la catena di aiuto. Tutto avveniva gratuitamente: Oscar non chiese mai ricompense a quanti aiutava, le operazioni erano sostenute dalla generosità silenziosa di tanti benefattori, fra cui l’ingegner Carlo Bianchi, partigiano nelle Fiamme verdi e amico fraterno di Teresio Olivelli, deportato nel campo di Fossoli e fucilato nel 1944, nonché padre dell’autrice del libro.
«La “storia grande” è illuminata dalle “storie piccole” di questi sacerdoti e laici che tentarono un’altra via alla resistenza armata, mettendo a rischio la propria incolumità per salvare vite umane», nota don Paolo Poli, assistente ecclesiastico dell’Ente Educativo Mons. Andrea Ghetti, che ricorda anche come i membri di Oscar non facessero distinguo fra chi “meritasse” aiuto e chi no. Dopo la Liberazione, infatti, Oscar portò in salvo anche militari tedeschi che avrebbero rischiato il linciaggio. Nel grado di tenente cappellano, don Giovanni Barbareschi fu autorizzato a evacuare San Vittore, «diventando il “corriere di fiducia” tra il comando alleato e il comando tedesco durante le trattative per risparmiare da rappresaglie le infrastrutture milanesi e soprattutto, su mandato del cardinal Schuster, si adopera per evitare rappresaglie contro i vinti con l’avallo dei comandi partigiani e alleati», si legge nel libro. Per evitare sommarie esecuzioni, Barbareschi si prodigò anche per il salvataggio del maresciallo Otto Koch, dal quale aveva subito torture in carcere durante il suo primo arresto.
Il valore del libro, del tutto accurato nella ricerca storica, risiede anche nelle preziose testimonianze raccolte nei decenni passati da Vittorio Cagnoni, biografo di don Ghetti e storico delle Aquile randagie. «Perché cristiani ci ribellammo a leggi inique e prendemmo le parti dei perseguitati. Fu rifiuto deciso a ogni discriminazione, fu aiuto prestato a gente senza difesa. Del resto il nostro “NO!” alla guerra, scatenata in nome di una ideologia politica, fu totale», dice ad esempio don Andrea Ghetti, in una delle interviste riportate. «Sono trascorsi quasi 80 anni dalla liberazione dal nazifascismo ma abbiamo l’obbligo morale di far conoscere ancora quanto accaduto per lasciare ai giovani una memoria documentata e veritiera», riprende Bianchi Iacono. Ribadisce anche Ettore Kluzer, presidente Ente Educativo Mons. Andrea Ghetti-Baden – ETS: «A fronte delle ingiustizie e delle violenze i membri dell’Oscar ripetevano: “Bisogna fare qualcosa… Si deve fare qualcosa!”. Lo ripetiamo anche noi oggi, per sollecitare un maggiore coraggio nelle scelte di vita dei ragazzi e degli adulti che leggeranno il libro».
Nella foto, da sinistra: gli autori Stefano Bodini e Carla Bianchi Iacono, con Ettore Kluzer, presidente dell’Ente educativo Mons. A. Ghetti Baden, e Giovanna Maino, figlia di Pia Ucelli