Dopo la visita di Giorgia Meloni alla Casa Bianca, celebrata in patria come un successo d’immagine — e non a torto, vista la disinvoltura con cui ha maneggiato l’inglese fluente e gli elogi (mai facili) strappati a Donald Trump — resta una sola domanda: al di là della coreografia, cosa c’è di concreto? La risposta, se c’è, va cercata dentro lo scenario economico globale, nel cuore incandescente di una nuova guerra commerciale in fase di riaccensione. Le trattative sui dazi — vere e proprie munizioni politiche per l’America trumpiana — sono in pieno svolgimento. Dopo il Giappone, è stata la volta dell’Italia. Nel pranzo nella Cabinet Room e nel colloquio nello Studio Ovale — lo stesso teatro della memorabile umiliazione inflitta a Zelensky nel primo mandato — Trump e il vicepresidente J.D. Vance hanno esibito un’ammirazione aperta per la leader italiana, lodandone le posizioni conservatrici e identitarie, e suggerendo che il suo stile di governo possa diventare un modello per l’intera Europa.
Meloni ha mostrato abilità tattica. Nessuna richiesta che potesse innescare scontri. Ha tenuto ferma la linea sull’Ucraina, ricordando che la guerra è stata cominciata dalla Russia. Ha confermato i 10 miliardi di investimenti italiani negli Stati Uniti e ha rilanciato con l’impegno ad aumentare le importazioni di gas americano, senza dimenticare di annunciare una sinistra intesa sul nucleare. Insomma, posture atlantiste abbinate a una consapevole seduzione diplomatica. Conoscendo il suo interlocutore, la premier ha calibrato bene le parole: «Il mio obiettivo è rendere di nuovo grande l’Occidente», ha detto. E ha subito colpito i nervi giusti, attaccando i programmi di diversità e l’ideologia “woke”. Poi, il colpo da teatro: l’invito ufficiale a Trump per una visita in Italia.
Meloni ha anche lasciato intendere la volontà di porsi come ponte tra Europa e Stati Uniti, ventilando un possibile vertice con i leader europei. Ma su questo punto Trump si è mostrato, come sempre, evasivo. Non è un mistero che questa visita avesse anche un sottofondo economico preciso: l’Europa cerca una tregua sui dazi, o almeno una sospensione più duratura. Ma Trump non fa sconti, e i tre mesi di sospensione concessi sono più che altro una finestra per alzare la posta in gioco. A quasi 90 giorni dall’inizio del secondo mandato, Trump non ha ancora trovato il tempo per incontrare Ursula von der Leyen, e non ha cambiato idea sull’Unione Europea: «È nata per fregare gli Stati Uniti», continua a ripetere.
Eppure, davanti a Meloni, ha garantito: «Ci sarà un accordo commerciale, al 100%, con l’Unione Europea entro la fine della sospensione». Ma ha specificato: su alcuni dazi. E sugli altri? Di fatto, Meloni torna a casa con un pieno di elogi pubblici, tra cui il commento di Trump secondo cui avrebbe «conquistato l’Europa». Ma quando gli è stato chiesto di dettagliare i contenuti dell’accordo commerciale promesso, ha cambiato discorso. Dietro la facciata dei sorrisi, restano divergenze strutturali. L’Italia non è il modello ideale per Trump, né sul commercio né sulla difesa. Il nostro Paese ha un surplus commerciale di 45 miliardi di dollari con gli Stati Uniti — complice la sete americana di prodotti italiani di lusso: vini frizzanti, formaggi, e le immancabili 3.500 Ferrari vendute ogni anno. Anche con un dazio del 25%, chi può permettersi una Rossa da 250mila dollari non si farà certo scoraggiare.
Sul fronte militare, l’Italia non ha ancora raggiunto l’obiettivo del 2% del PIL per la spesa in difesa stabilito dalla NATO. Siamo sotto l’1,5%. Meloni ha promesso di arrivarci. Ma Trump, da negoziatore consumato, ha già fatto sapere che lui punta al 5%, così da “chiudere” eventualmente sul 3%. Una corsa al riarmo che, inutile dirlo, favorisce soprattutto l’industria bellica americana. Dunque, che cosa resta? Al momento, un buon rapporto personale. Una “special relationship” in versione mediterranea. Ma per usare una sintesi romana: siamo ancora al “caro amico”.