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Medici di famiglia, dipendenti o convenzionati? Come funziona ora, come potrebbe cambiare, perché fa discutere

Per adesso la bozza di riforma dello status dei medici di medicina generale, quelli che fino a non molto tempo fa si chiamavano medici di famiglia, anticipata da Milena Gabanelli sul Corriere della sera è un’araba fenice non confermata da fonti ufficiali. Ma il suo tema centrale è in discussione da tempo e ciclicamente torna: oggi i medici di famiglia sono dal punto di vista formale liberi professionisti che lavorano in convenzione con il sistema sanitario, pagati dallo Stato in base al numero di assistiti (70 euro lordi l’anno ad assistito se ne hanno fino a 500, 35 euro lordi circa se ne hanno di più, con l’aggiunta di bonus fissi per alcune prestazioni). Di tanto in tanto si propone di renderli dipendenti formalmente del Ssn come i medici ospedalieri.

È quello che trapela anche dalla attuale bozza di riforma. Anche se va detto che la stessa maggioranza non sembra avere posizioni univoche in merito, Fi, per esempio, propone un sistema misto che salverebbe la convenzione ma imporrebbe un orario a 38 ore e che fa molto discutere perché sommerebbe gli svantaggi della dipendenza con quelli della libera professione, negando i vantaggi dell’una e dell’altra. La questione è comunque controversa e merita un approfondimento, anche solo in prospettiva.

 


LE INDISCREZIONI SULLA BOZZA

Stando alle indiscrezioni questi sarebbero i punti della bozza di riforma allo studio:

Rendere i Medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta direttamente dipendenti dal Sistema sanitario nazionale, a partitre dai nuovi assunti, mentre quelli già in servizio potranno decidere come posizionarsi, finché non andranno in pensione. Con il regime di dipendenza il contratto prevederebbe 38 ore settimali per i medici di medicina generalecosì ripartito:

1) fino a 400 assistiti: 38 ore da rendere nel distretto o sue articolazioni, delle quali 6 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;

2) da 401 a 1.000 assistiti: 12 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;

3) da 1001 a 1.200 assistiti: 18 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;

4) da 1.201 a 1.500 assistiti: 21 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale;

5) oltre a 1.500 assistiti: 24 ore da dedicare agli assistiti e le restanti per le esigenze della programmazione territoriale».

Com’è andata fino adesso

  

La legge 833 del 1978 che ha istituito il Servizio sanitario nazionale (Ssn) all’articolo 25 stabiliva che  «L’assistenza medico-generica e pediatrica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel comune di residenza del cittadino». Significa che non c’è stata a monte, nel delineare il quadro del sistema, una prescrizione riguardo allo status professionale del medico, poteva essere dipendente o libero professionista in convenzione. La scelta è avvenuta con la legge legge 508/1992 che all’articolo 8 stabilisce che «Il rapporto tra il Servizio sanitario nazionale, i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta è disciplinato da apposite convenzioni di durata triennale conformi agli accordi collettivi nazionali stipulati, ai sensi dell’art. 4, comma 9, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (b), con le organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative in campo nazionale». Gli accordi devono tenere presenti diversi principi tra questi il numero massimo di assistiti e la possibilità per i pazienti di scegliersi il medico e le regole per revocarlo.


Meno 10mila medici in dieci anni

In tempi recenti, però il sistema, e con esso l’effettività della libera scelta e del numero massimo di assistiti si scontra con la carenza di medici di medicina generale disponibili. Secondo un dato diffuso dalla La Società Italiana dei Medici di Medicina Generale e delle Cure Primarie (S.I.M.G.), che è una società scientifica autonoma di natura non sindacale, tra il 2013 e il 2023 i medici di famiglia sono passati da 46.000 a 35.000. Proprio allo scopo di ragionare su come meglio distribuire le poche risorse (che la Società attribuisce a una cattiva programmazione che non ha calcolato le necessità relative al rimpiazzo dei medici che vanno in pensione e alla difficoltà di trovare giovani medici disponibili a intraprendere questo percorso) Simg ha annunciato il 3 dicembre scorso in occasione dell’ultimo congresso nazionale, che sta dedicando la prima parte dell’anno in corso a una raccolta di dati economici, finanziari, sociali, demografici, sanitari per fotografare lo stato attuale del sistema sanitario nazionale destinata a sfociare in un “Libro bianco”, contente proposte operative da sottoporre a un’ampia consultazione pubblica.

Tutto questo a fronte di una popolazione che invecchia e che sempre più si confronta con la criticità di malattie croniche: secondo il rapporto Sanità e Salute Istat 2023, ne soffre il 40,4% della popolazione residente in Italia, percentuale che si alza nelle fasce d’età oltre i 50 anni. Fondazione Gimbe, nel rapporto pubblicato il 7 marzo 2024, «ritenendo accettabile un rapporto di 1 MMG ogni 1.250 assistiti (valore medio tra il massimale di 1.500 e l’attuale rapporto ottimale di 1.000) e utilizzando le rilevazioni SISAC, stima – su dati tratti da le rilevazioni della Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati (SISAC) al 1 gennaio 2023, più recenti di quelle del Ministero della Salute al momento della ricerca – al 1° gennaio 2023 una carenza di 3.114 MMG, con situazioni più critiche nelle grandi Regioni del Nord: Lombardia (-1.237), Veneto (-609), Emilia Romagna (-418), Piemonte (-296), oltre che in Campania (-381)».

I medici di base in cifre

  

La situazione è destinata, secondo l’analisi Fondazione Gimbe, a peggiorare andando avanti: «Tenendo conto dei pensionamenti attesi e del numero di borse di studio finanziate per il Corso di Formazione in Medicina Generale, è stata stimata la carenza di MMG al 2026, anno in cui dovrebbe “decollare” la riforma dell’assistenza territoriale prevista dal PNRR (che prevede tra l’altro l’istituzione delle Case di comunità, ndr). Considerando l’età di pensionamento ordinaria di 70 anni e il numero borse di studio messe a bando per gli anni 2020-2023 comprensive di quelle del DL Calabria per cui si sono presentati candidati, nel 2026 il numero dei MMG diminuirà di 135 unità rispetto al 2022, ma con nette differenze regionali. In particolare saranno tutte le Regioni del Sud (tranne il Molise) nel 2026 a scontare la maggior riduzione di MMG: Campania (-384), Puglia (-175), Sicilia (-155), Calabria (-135), Abruzzo (-47), Basilicata (-35), Sardegna (-9,) oltre a Lazio (-231), Liguria (-36) e Friuli Venezia Giulia (-22).

La stima dell’entità della carenza è condizionata da differenti fattori. In particolare, è sottostimata dall’eventuale scelta dei MMG di andare in pensione prima dei 70 anni, dal numero di borse non assegnate e dall’abbandono del Corso di Formazione in Medicina Generale (almeno 20%). Viene al contrario sovrastimata dall’eventuale decisione dei MMG di prolungare l’attività sino ai 72 anni e dalla possibilità dei medici iscritti al Corso di Formazione in Medicina Generale di acquisire già dal primo anno sino a 1.000 assistiti».

«La progressiva carenza di MMG – spiegava nell’occasione della presentazione Nino Cartabellotta presidente della Fondazione – consegue sia ad errori nella pianificazione del ricambio generazionale, in particolare la mancata sincronia per bilanciare pensionamenti attesi e finanziamento delle borse di studio, sia a politiche sindacali non sempre lineari. E le soluzioni attuate, quali l’innalzamento dell’età pensionabile a 72 anni, la possibilità per gli iscritti al Corso di Formazione in Medicina Generale di acquisire sino a 1.000 assistiti e le deroghe regionali all’aumento del massimale, servono solo a “tamponare” le criticità, senza risolvere il problema alla radice».

I dati forniti dal Ministero della Salute, elaborati da Gimbe, riferiti all’anno 2022, documentano infatti che su 39.366 MMG il 47,7% ha più di 1.500 assistiti; il 33% tra 1.001 e 1.500 assistiti; il 12,1% da 501 a 1.000; il 5,7% tra 51 e 500 e l’1,5% meno di 51. In particolare, il massimale di 1.500 assistiti viene superato da più di un MMG su due in Emilia-Romagna (51,5%), Campania (58,4%), Provincia Autonoma di Trento (59,1%), Valle D’Aosta (59,2%), Veneto (64,7%). E addirittura da due MMG su tre nella Provincia Autonoma di Bolzano (66,3%) e in Lombardia (71%). Attualmente, scrive Gimbe, il tetto massimo di 1.500 assistiti può essere portato a 1.800, numero che talora viene ulteriormente superato attraverso deroghe locali (es. fino a 2.000 nella Provincia Autonoma di Bolzano), o per casi di indisponibilità di MMG oltre che per le scelte temporanee affidate al medico (es. extracomunitari senza permesso di soggiorno, non residenti).

Secondo i dati forniti dalla Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (FIMMG), tra il 2023 e il 2026 sono 11.439 gli MMG che hanno compiuto/compiranno 70 anni, raggiungendo così l’età massima per la pensione, deroghe a parte: dai 21 della Valle D’Aosta ai 1.539 della Lombardia.


LA formazione


Attualmente la formazione dei medici di medicina generale non è affidata alle scuole di specialità universitarie come per i medici specialisti ma a un corso di formazione specifica triennale, disciplinato dal D.Lgs.n. 368/99, modificato dal D.Lgs. n.277/2003, in adeguamento alle norme europee, cui accedono laureati in medicina abilitati, selezionati attraverso un concorso pubblico bandito ogni anno dalle Regioni. Tra i punti della riforma c’è anche l’idea di equiparare la formazione dei medici di medicina generale a quella degli specialisti, tema che coglie il favore della Simg, che da tempo lo chiede.

Dipendenti o convenzionati, pro e contro

  

La trasformazione ancorché graduale del rapporto di lavoro da libero professionale/convenzionato a dipendente è invece un aspetto controverso (che si porta dietro anche il tema collaterale della sostenibilità di Enpam l’ente previdenziale di categoria) che vede dividersi anche le sigle sindacali: da tempo preme per la dipendenza diretta Fp Cgil Mmg, mentre sono contrarie Fnomceo, Fimmg.

Il principale argomento a sfavore addotto sarebbe lo svuotamento del rapporto fiduciario medico-paziente a fronte di una spersonalizzazione legata alla turnazione di persone diverse collegata al monte ore da dipendenti e il rischio di ridurre la prossimità medico-paziente mentre la popolazione invecchia. L’argomento a favore sarebbero una migliore integrazione del sistema sanitario nazionale tra ospedali e territorio, una più ampia copertura oraria attraverso i turni (ammesso che si trovino i medici per coprirli) e maggiori tutele nel rapporto dipendente per i medici (malattia, maternità, ferie ecc.). Ma come si vede le opinioni anche delle associazioni di categoria in parte divergono.


IL NODO CASE DI COMUNITÀ E PNRR

È chiaro che a monte di tutto c’è la difficoltà di riempire di personale le Case di comunità (quelle strutture, previste dalla riforma del Pnrr che dovrebbero riunire medici di base e specialisti, nonché infermieri e psicologi e garantire assistenza ed esami sul territorio garantendo assistenza continuativa dalle 8 alle 20 ogni giorno attraverso turni). Stando a un dato pubblicato da OReP – Osservatorio sul Recovery Plan, un progetto per il monitoraggio del Pnrr promosso dal Dipartimento di Economia e Finanza dell’Università di Roma Tor Vergata e da Promo PA Fondazione: «Il PNRR ha stanziato 2 miliardi di euro per potenziare la prevenzione sanitaria in Italia, attraverso l’apertura di 1.420 Case di Comunità entro il 2026. Tuttavia, al 30 giugno 2024, ne sono state attivate solo 413, concentrate in poche regioni, come Lombardia ed Emilia-Romagna, mentre in dieci regioni, tra cui Lazio e Puglia, non ce n’è neanche una operativa. Inoltre, molte di queste strutture funzionano con un grave deficit di personale medico, rendendole poco più che “scatole vuote”. La mancanza di medici e la difficoltà di integrare i medici di famiglia nelle Case di Comunità ostacolano il pieno utilizzo delle strutture». 

 

Vantaggio o svantaggio per i cittadini? Dipende

  

Dietro la proposta di un rapporto di dipendenza per i medici di medicina generale c’è probabilmente la convinzione o la speranza di poterli dirottare di più verso le case di comunità, potendo disporre e stabilire dall’alto la distribuzione delle loro ore di lavoro. Ma non è semplice stabilire quale sia attualmente il monte ore lavorate dagli attuali medici inquadrati come libero professionisti, per altro pure loro, come tutta la sanità, sempre più gravati di una infinità di incombenze burocratiche, anche se è vero che la nuova convenzione prevede già che rendano ore di disponibilità per le case di comunità. Potrebbe esserci un vantaggio per il cittadino se la somma delle ore lavorate per ciascuno di loro a settimana fosse in media inferiore alle 38 ore stabilite da un rapporto di dipendenza, ma potrebbe non esserci, o tradursi in uno svantaggio, se scoprissimo che davvero, come affermano i sindacati di categoria, il monte ore lavorato in media a settimana dall’Mmg libero professionista in convenzione fosse superiore a quelle 38 ore. Un raffronto numeri alla mano, però, non è semplice perché le caratteristiche dei due sistemi sono disomogenee.

A fare un calcolo approssimativo del carico di lavoro attuale ha provato uno studio targato Cergas-Bocconi Intitolato: I cambiamenti dei modelli di servizio della medicina generale di Giulia Broccolo, Francesca Guerra, Francesco Longo, Angelica Zazzera, presentato nel dicembre scorso in cui si stima che i medici di medicina generale rispondano mediamente a 45 contatti al giorno con i pazienti, che salgono a oltre 70 se si contano anche quelli transitati attraverso le segreterie, e che soprattutto al Nord una parte significativa di questi contatti avvenga già da remoto, tramite mail, whatsApp, telefono.


Comunque sia una coperta corta che non basterà tirare


La sensazione che si ricava dal complesso dei dati è che, comunque si regolamenti il rapporto professionale, si tratti in ogni caso di tirare una coperta corta e che molto finirà a giocarsi sulla scommessa di trovare modi e risorse per rendere la medicina generale attrattiva per i giovani medici, concorrenziale rispetto al privato, all’estero e alle specialità, in un contesto in cui già si assiste, nelle specialità più impegnative e stressanti, a una fuga dal contratto pubblico per il privato o per prestazioni a “gettone”, con tutte le complessità che questo già oggi genera al servizio e all’assistenza. A ogni bando che cerca candidati per il corso di formazione arrivano notizie che dicono che il numero di candidati è inferiore ai posti messi a concorso.





Dal sito Famiglia Cristiana

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