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Mario Calabresi: «Giornalisti della speranza in un mondo di fake news»



Da sinistra, Maria Ressa, Mario Calabresi e Colum McCann in aula Paolo VI.

Si può ancora comunicare la speranza? In un’epoca dominata da narrazioni disperate, il giornalismo ha ancora la forza e gli strumenti per proporre un linguaggio che non si limiti a registrare i fatti e deunciare il male? Qwuanto conta la responsabilità personale di chi comunica? QA queste domande cercava di rispondere l’incontro in aula Paolo VI il 24 gennaio scorso, festa di San Francesco di sales, patrono dei gironalisti. A tirare le fila di un acceso dibattito c’era Mario Calabresi, una lunga carriera nella carta stampata, già corrispondente da new York, già direttore della Stampa e di Repubblica, attualmente direttore della testata Chora Media (la stessa di Cecilia Sala, la gironalista ostaggio in Iran), scrittore di libri di successo, l’ultimo è Il tempo del bosco, Mondadori). «C’è stata una quantità e una densità di dibattito sullo stato del giornalismo e della comunicazione che non trovavo da tempo», ricorda Calabresi. «L’intervento di Maria Ressa, la giornalista filippina naturalizzata statunitense, nonché Premio Nobel per la pace, è stato di altissimo livello. Eppure se vai su tutte le piattaforme che si interrogano su questi problemi sono tte sul negativo. Tutto è cupo. Non si distinguono i fatti. E senza fatti, come ha detto Maria Ressa, “non c’è verità, senza verità non c’è fiducia. E senza fatti, verità e fiducia non c’è democrazia”. Perché senza fiducia, non abbiamo realtà condivisa, nessuna democrazia, e diventa impossibile affrontare i problemi esistenziali dei nostri tempi».
Ultimamente la democrazia informativa non è che goda di buona salute…pensiamo ai milioni di fake news inoculate nei social …
«Quello cui stiamo assistendo in quest periodo è una trasformazione, una regressione direi, in cui si cancella la moderazione, compreso il fact checking, il controllo dei fatti. Diventa tutto selvaggio, un modo digitale, e inevitabilmente reale, selvaggio».
Poi arriva la giornata di riflessione nell’ambito del Giubileo …
«Mi colpisce che tutto sia stato seppellito nel silenzio e poi, all’improvviso, il dibattito sia scoppiato nell’ambito di quest’evento. Anche le parole dello scrittore e giornalista irlandese-americano Colum McCann sono state coinvolgenti. Bisogna raccontare la storia delle persone, è il suo insegnamento. Lui le fa dialogare, come in Apeirogon, dedicato all’amicizia dei padri palestinese e israeliano Bassam Aramin e Rami Elhanan.  McCann  continua a fare questo lavoro attraverso la sua Ong, Narrative 4, in cui fa parlare le persone».
È come se umanizzasse l’informazione. La storia, la narrazione, dice, sono la nostra democrazia.
« “Se tu senti la storia di una persona ti accorgi che è un essere umano e non una cosa, un numero e a quel punto come fai a tirargli una bomba in testa?”, ci ha spiegato».
L’aula Paolo VI era gremita.
«C’erano cinquemila persone su una capienza di settemila. Un’affluenza brillante e più che mai vitale. L’universo della comunicazione è fertilissimo anche se spesso tendiamo a vederlo finito. C’erano giornalisti del Pakistan, da vari Paesi dell’Africa, dal Messico …».
Che secondo un rapporto di Reporter senza frontiere è diventato il Paese con il maggior numero di giornalisti scomparsi al mondo, con 30 casi registrati. Inoltre, il Messico è stato il terzo Paese del Pianeta per numero di giornalisti assassinati, dopo Palestina e Pakistan.
«Gente che rischia la vita per raccontare cosa succede. Ma per comunicazione la intendiamo a 360 gradi. C’erano persino suore missionarie che hannno raccontato come facevano informazione sui loro ospedali».
Il giornalismo ha ancora la forza di proporre un linguaggio che non si limiti a denunciare il male ma apra orizzonti di speranza? Il romanzo è nel male, scriveva George Bataille, per dire che la narrazione è spesso radicata nella rappresentazione del lato oscuro dell’esperienza umana. Le buone notizie non fanno notizia, si dice.
«Non bisogna pensare di mettere in contrapposizione il bene e il male nell’informazione. Sostituire le cattive notizie con quelle buone non è la strada. La differenza sta nel raccontare le cose buone quando racconti una vicenda, anche denunciando i fatti. È sacrosanto portare alla luce i problemi, il malfunzionamento, le magagne, i delitti, la cattiva politica, gli episodi di corruzione. L’errore è scrivere che è tutto da buttare via, dimenticando chi si prodiga per trovare soluzioni. Puoi raccontare gli incendi della California, ma nella narraziomne oltre al dramma, alle vittime, alla frustrazione di chi ha perso tutto, ci sono anche i pompieri che si sono dannati per arginare i danni e portare la gente in salvo. E alla fine li hanno spenti quegli incendi».
È così che si infonde la speranza nella comunicazione?
«È tutta questioen di crederci. Tutto ciò che contiene un elemento di soluzione e di speranza nella narrazione funziona molto meglio, non è solo un’operazione onesta e maggiormente veritiera».
Le nostre testate lo fanno?
«No. O almeno non abbastanza. Nella testata che dirigo, Chora Media, c’è Chora Will, seguita mediamente da un milione e duecentomila persone. Noi vediamo che ogni volta che accanto alla denuncia mettiamo anche la “pars costruens”, ad esempio oltre a denunciare la deforestazione della Foresta Amazzonica approfondiamo su chi cerca di limitare i danni, sulle soluzioni per rimboscarla etc, allora il seguito è cinque volte maggiore».
Qual è l’impressione sulle parole di papa Francesco pronunciate a braccio per questa giornata dedicata alla comunicazione?
«L’impronta che ha dato è di condivisione delle cose. Fa parte del Dna del giornalista, tornare a condividere i fatti, scendere in strada, denunciare le storture, i soprusi, partecipando ai drammi e alle miserie umane in prima persona. È anche questa la missione del giornalista».

Dirigere uno dei massimi siti di podcast italiani come Chora Media, può avvantaggiare in questo processo di compartcipazione?
«Oggi non c’è più la Tv che prende tutto. Il mondo dell’informazione è molto più frammentato, parcellizzato, settorializzato. Noi di Chora Media parliamo soprattutto a un pubblico, quello dei podcast, tra i 25 e i 45 anni».
Come ti spieghi il successo dei podcast?
«Ci sono varie ragioni. Siccome il tempo degli occhi è già pienissimo di immagini durante la giornata, gli occhi insomma sono saturi, come si fa ad approfondire? Allora ecco il mezzo nuovo dell’audiolibro e del podcast. Quello della mia intervista a Cecilia Sala dopo la liberazione dura 24 minuti. Scritta, avrebbe riempito quattro facciate di un quotidiano. Chi se le leggeva? Forse nessuno, avrebbero letto titolo e sommario e girato pagina. Invece l’hanno ascoltata tutti quell’intervista, per la comodità che offre il mezzo auditivo».
C’è anche il fattore emozionale che conta …
«Certamente, il podcast ricostruisce una certa intimità. Inoltre la voce contribuisce a instaurare una fiducia tra chi parla e ascolta, è più autentica, meno formale. Il podcast poi ha potenzialità straordinarie. Abbiamo curato una serie su don Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione, basata sul reperimento di alcune vecchie registrazioni ripulite, assemblate e rieditate dai nostri operatori, tecnici del suono, giornalisti e via dicendo. La serie ha avuto un successo straordinario perché la gente che lo aveva incontrato ha potuto risentirlo, mentre chi non lo aveva mai conosciuto ha potuto ascoltare la sua voce originale. Il passato della persona è riemerso in tutta la sua potenza ed è diventato presente. Si poteva ascoltare don Giussani dal vivo. È anche questa la forza dell’infromazione, che in questo caso diventa persino spiritualità».

 

Mario Calabresi con papa Francesco e il prefetto del Dicastero della Comunicazione Paolo Ruffini.


Mario Calabresi con papa Francesco e il prefetto del Dicastero della Comunicazione Paolo Ruffini.



Il giornalismo ha ancora la forza di proporre un linguaggio che non si limiti a denunciare il male ma apra orizzonti di speranza? Il romanzo è nel male, scriveva George Bataille, per dire che la narrazione è spesso radicata nella rappresentazione del lato oscuro dell’esperienza umana. Le buone notizie non fanno notizia, si dice.
«Non bisogna pensare di mettere in contrapposizione il bene e il male nell’informazione. Sostituire le cattive notizie con quelle buone non è la strada. La differenza sta nel raccontare le cose buone quando racconti una vicenda, anche denunciando i fatti. È sacrosanto portare alla luce i problemi, il malfunzionamento, le magagne, i delitti, la cattiva politica, gli episodi di corruzione. L’errore è scrivere che è tutto da buttare via, dimenticando chi si prodiga per trovare soluzioni. Puoi raccontare gli incendi della California, ma nella narraziomne oltre al dramma, alle vittime, alla frustrazione di chi ha perso tutto, ci sono anche i pompieri che si sono dannati per arginare i danni e portare la gente in salvo. E alla fine li hanno spenti quegli incendi».
È così che si infonde la speranza nella comunicazione?
«È tutta questioen di crederci. Tutto ciò che contiene un elemento di soluzione e di speranza nella narrazione funziona molto meglio, non è solo un’operazione onesta e maggiormente veritiera».
Le nostre testate lo fanno?
«No. O almeno non abbastanza. Nella testata che dirigo, Chora Media, c’è Chora Will, seguita mediamente da un milione e duecentomila persone. Noi vediamo che ogni volta che accanto alla denuncia mettiamo anche la “pars costruens”, ad esempio oltre a denunciare la deforestazione della Foresta Amazzonica approfondiamo su chi cerca di limitare i danni, sulle soluzioni per rimboscarla etc, allora il seguito è cinque volte maggiore».
Qual è l’impressione sulle parole di papa Francesco pronunciate a braccio per questa giornata dedicata alla comunicazione?
«L’impronta che ha dato è di condivisione delle cose. Fa parte del Dna del giornalista, tornare a condividere i fatti, scendere in strada, denunciare le storture, i soprusi, partecipando ai drammi e alle miserie umane in prima persona. È anche questa la missione del giornalista».

Dirigere uno dei massimi siti di podcast italiani come Chora Media, può avvantaggiare in questo processo di compartcipazione?
«Oggi non c’è più la Tv che prende tutto. Il mondo dell’informazione è molto più frammentato, parcellizzato, settorializzato. Noi di Chora Media parliamo soprattutto a un pubblico, quello dei podcast, tra i 25 e i 45 anni».
Come ti spieghi il successo dei podcast?
«Ci sono varie ragioni. Siccome il tempo degli occhi è già pienissimo di immagini durante la giornata, gli occhi insomma sono saturi, come si fa ad approfondire? Allora ecco il mezzo nuovo dell’audiolibro e del podcast. Quello della mia intervista a Cecilia Sala dopo la liberazione dura 24 minuti. Scritta, avrebbe riempito quattro facciate di un quotidiano. Chi se le leggeva? Forse nessuno, avrebbero letto titolo e sommario e girato pagina. Invece l’hanno ascoltata tutti quell’intervista, per la comodità che offre il mezzo auditivo».
C’è anche il fattore emozionale che conta …
«Certamente, il podcast ricostruisce una certa intimità. Inoltre la voce contribuisce a instaurare una fiducia tra chi parla e ascolta, è più autentica, meno formale. Il podcast poi ha potenzialità straordinarie. Abbiamo curato una serie su don Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione, basata sul reperimento di alcune vecchie registrazioni ripulite, assemblate e rieditate dai nostri operatori, tecnici del suono, giornalisti e via dicendo. La serie ha avuto un successo straordinario perché la gente che lo aveva incontrato ha potuto risentirlo, mentre chi non lo aveva mai conosciuto ha potuto ascoltare la sua voce originale. Il passato della persona è riemerso in tutta la sua potenza ed è diventato presente. Si poteva ascoltare don Giussani dal vivo. È anche questa la forza dell’infromazione, che in questo caso diventa persino spiritualità».





Dal sito Famiglia Cristiana

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