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L’oratorio, un bene inestimabile per la Chiesa e la società

Neanche un prete per chiacchierare, lamentava desolato Adriano Celentano in una assolata e squallida estate di periferia. Solo perché era estate, e i preti certamente erano in vacanza coi ragazzi dell’oratorio. Già, l’oratorio. Un luogo per pregare, secondo le intenzioni di San Filippo Neri, in comunità di religiosi e laici. Ma è stato San Giovanni Bosco, a Torino, a riunire i ragazzi di strada per pregare e poi per chiacchierare, giocare, stare insieme, crescere nella fede. Sotto la tettoia su un prato, a Valdocco, i ragazzini più poveri, lavoratori sfruttati, spesso senza famiglia, hanno trovato un padre e dei fratelli.

Da allora l’oratorio si è diffuso come metodo educativo in tutta Italia. Resiste, nonostante la sempre maggior lontananza dall’esperienza ecclesiale, nonostante scarseggino i preti, riferimento essenziale dell’oratorio, che non è una sala gioco o un’associazione filantropica. È una casa, dove si impara a condividere, a osservare le regole, prima di tutto i comandamenti e il primo comandamento del Vangelo, amare Dio e il prossimo.

Ma gli oratori non chiedono tessere di appartenenza religiosa, politica, sociale. Ti chiedono solo il nome e sei di casa anche tu. Ho partecipato al lancio di presentazione del bando Porte Aperte promosso dalla fondazione Cariplo e da tante fondazioni di comunità, sul territorio, per sostenere gli oratori. Solo in Lombardia sono circa 2.600. A Roma un sant’uomo, Arnoldo Canepa, ha dedicato tutta la sua esistenza a fondare e dirigere oratori ed è nato il Cor, Centro oratori romani, veri presidi di umanità.

Per questo la società civile si accorge del loro ruolo, in città e nei piccoli paesi, e capisce che ne ha bisogno, per includere, guidare troppi adolescenti sbandati. Non è solo buon cuore a muovere banche, imprenditoria e autorità pubbliche, ma intelligente realismo.

Su quali alleanze educative si può contare per formare i ragazzi? La famiglia, sempre meno. La scuola, a macchia di leopardo. Qualche circolo sportivo, ma per allenare futuri campioncini. E gli altri? Nelle parrocchie invece ci sono tanti spazi, ci sono teste e mani e cuore per spronare la creatività, seguendo i segni dei tempi. Il campetto col pallone va sempre bene, ma nascono anche laboratori di cucina, d’arte, scuola di italiano per stranieri, doposcuola e poi sportelli per l’impiego dei più grandi, centri con psicologi e pedagogisti. Poco a poco la rete dei servizi si allarga alle mamme in difficoltà, ai bambini più piccoli che non trovano posto al nido, agli anziani. In oratorio tornano a vivere, a sentirsi utili con il loro bagaglio di esperienza e di umanità, con la capacità di ascolto che i ragazzi non trovano più. Buona volontà dunque ma anche una necessaria formazione specifica: non ci si improvvisa a competere con ambiti ben più attrattivi, la lingua degli adolescenti bisogna conoscerla e saperci dialogare. Il di più è dono: quando con un prete o una suora, una mamma o un papà, un amico più grande scatta un incontro indimenticabile, che ti spalanca il senso del vivere. Allora i ragazzi più difficili e chiusi e soli cambiano e imparano a sorridere, a fare amicizie vere, non solo virtuali.

(Foto in alto: Giovanni Panizza)





Dal sito Famiglia Cristiana

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