Quarant’anni fa Reagan e Gorbaciov avviavano la distensione tra Usa e Urss. Ginevra 1985 non fu l’alba di un’utopia ma l’inizio di un esercizio difficile: quello del compromesso. Oggi quantomai necessario
Guglielmo Gallone – Città del Vaticano
C’è stato un momento nella storia in cui la distensione tra grandi potenze è sembrata davvero possibile. Quarant’anni fa, precisamente il 19 novembre 1985, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Mikhail Gorbaciov s’incontravano a Ginevra, in Svizzera. Una stretta di mano durata sette secondi, una passeggiata lungo i giardini di Villa Fleur d’Eau, un colloquio bilaterale che non avveniva dal 18 giugno 1979 – cioè dal giorno in cui Jimmy Carter e Leonid Breznev firmarono a Vienna il trattato Salt II, che doveva rappresentare una tappa importante della distensione ma invece segnerà la fine di quel processo – e una frase, scritta su un documento congiunto: «Una guerra nucleare non può essere vinta né dev’essere combattuta». Una frase scolpita nella storia e oggi sempre più attuale.
L’attualità di un messaggio
Certo, Reagan era forte del successo internazionale appena ottenuto con l’installazione dei missili Pershing in Europa e puntava ancora più in alto con la Strategic defense initiative (Sdi), mentre Gorbaciov doveva gestire un’economia in profonda crisi, un sistema centralizzato stagnante e un’invasione di terra fallimentare come quella dell’Afghanistan. Evidentemente proprio questa discrepanza avrebbe trasformato nel tempo la distensione in un progetto volto a far naufragare l’Unione Sovietica e ad aprire le porte alla vittoria americana della Guerra Fredda. Eppure, c’è stato un attimo, un’intercapedine all’interno della quale entrambi questi leader decisero di ricorrere non agli arsenali atomici bensì alle parole, di fare un non scontato passo indietro: nel caso di Reagan, di rinunciare al fervente anticomunismo che lo aveva aiutato a vincere due elezioni consecutive; nel caso di Gorbaciov di opporsi a un sistema politico scettico nei confronti degli americani e desideroso invece di sbilanciare l’equilibrio del terrore. Lo fecero per parlarsi, incontrarsi, trovare un terreno in comune ed aprire un dialogo. Un’esigenza che, nel 2025 come nel 1985, è fondamentale. Soprattutto in queste settimane quando, di fronte alla “terza guerra mondiale a pezzi” che Papa Francesco non ha smesso di denunciare neanche durante i 38 giorni di ricovero al policlinico Gemelli, si stanno moltiplicando gli sforzi per arrivare a una tregua e per aprire un negoziato nel conflitto in Ucraina, per niente isolato anzi ben rappresentativo dello scontro tra grandi potenze tuttora in atto. E mentre aumenta il rischio che la guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti degeneri in qualcosa di più grande.
Un punto di partenza
Riavvolgere il nastro della storia è dunque ancor più importante oggi. Innanzitutto, perché a Ginevra nel 1985 fu dato il via a una serie di vertici inediti. È vero, in apparenza non ci fu alcun risultato concreto durante 15 ore di colloqui: i sovietici chiedevano l’arresto del programma Sdi, gli statunitensi erano contrari. Proprio su questo punto la distanza si rivelò insanabile. Reagan era infatti determinato a non fare concessioni sulla Sdi, che considerava un sistema di difesa contro i missili balistici, «richiesto a gran voce dalla mia gente» – avrebbe detto a Ginevra – non come «un’arma che uccide» ma anzi «da condividere con tutti» perché capace di rendere «il mondo più sicuro». Gorbaciov, assai scettico, interpretava il programma Sdi in senso offensivo, come l’embrione di una supremazia spaziale americana: sposando appieno la logica della parità strategica, riteneva che qualsiasi accordo sul disarmo sarebbe stato inutile se una delle due potenze avesse continuato a inseguire l’idea di uno “scudo spaziale” capace di neutralizzare le ritorsioni nucleari. Perciò, se Washington non avesse rinunciato alla sua iniziativa strategica, non ci sarebbe stata alcuna riduzione delle armi offensive e, di più, Mosca avrebbe risposto con un sistema più semplice ma più efficace. I colloqui proseguirono in un clima teso, a tratti gelido. Anche perché le differenze non si fermavano qui. Nel secondo e ultimo giorno di colloqui Reagan pronunciò parole che suonarono provocatorie per Gorbaciov parlando di cittadini ucraini o polacchi residenti negli Usa che desideravano ricongiungersi con le famiglie nei Paesi d’origine. «Davvero ti fai condizionare da piccoli casi politici?», domandò Gorbaciov, criticando così la narrativa americana secondo cui l’Urss fosse non solo responsabile dei problemi in Europa come nel Terzo Mondo, ma pure divisa socialmente, sul punto di collassare economicamente e forte solo militarmente. «Non capisci il mio approccio politico», replicò secco Reagan, che perseguiva al contempo un riarmo sofisticato ma anche il ritorno al realismo e a trattative diplomatiche condotte con fermezza[1].
Reykjavík 1986
Alla fine, i due leader firmarono un comunicato congiunto denso di buone intenzioni, ma per nulla vincolante. Eppure, qualcosa si incrinò nella logica binaria della Guerra Fredda: Gorbaciov e Reagan parlarono, litigarono, ma si videro, si ascoltarono. Fu un nulla di fatto sul piano tattico, ma un’apertura sul piano umano. Ginevra non disinnescò la bomba, ma rimosse un dito dal grilletto. E, soprattutto, aprì le porte al «vertice più bizzarro della Guerra Fredda», quello di Reykjavík, datato 11-12 ottobre 1986. Che non fu “bizzarro” per la sede del vertice, la storica ambasciata britannica in Islanda, già residenza del console di Francia e del poeta Einar Benediktsson, scelta per l’equidistanza geografica tra le due superpotenze e perché avrebbe evitato ogni formalità o pressione mediatica, quanto piuttosto perché, originariamente, questo non doveva nemmeno essere un vertice.
A Ginevra i due leader avevano concordato solo due incontri ufficiali futuri: uno a Washington e uno a Mosca. Ma, nel settembre 1986, Gorbaciov propose un “incontro di lavoro” informale per dare impulso al dialogo sul disarmo. In quegli anni il leader sovietico lanciò l’idea di un disarmo non solamente effettivo ma che, ancor più, non implicasse necessariamente un mantenimento della proporzione fra i due campi. Si trattava finalmente non più di limitare gli armamenti esistenti, bensì di distruggerne una parte. D’altronde, era stata questa la proposta lanciata dallo stesso Gorbaciov poco prima, il 15 gennaio 1986, quando propose[2] l’eliminazione di tutte le armi nucleari entro il 2000, includendo un accordo per azzerare i missili a medio raggio in Europa, parlando di «problemi globali che affliggono l’umanità intera» e della necessità di un «sistema organico di sicurezza».
Quel che accadde a Reykjavík fu quindi tutt’altro che informale: Gorbaciov e Reagan si ritrovarono a sfiorare un accordo storico sull’abolizione totale delle armi nucleari. Ancora una volta, fu la questione della Sdi e l’eliminazione di tutti i missili balistici a far deragliare tutto: «Accettare la vostra proposta richiederebbe un livello eccezionale di fiducia. E noi non possiamo», avrebbe detto il negoziatore sovietico Georgi Arbatov[3]. Questa fu il vero handicap del vertice: la mancanza di fiducia reciproca. Un deficit non tecnico, bensì profondamente geopolitico. Perché un negoziato di questo tipo non si misura solo con le carte sul tavolo, bensì con le logiche che lo sostengono. Comprendere chi sono gli attori coinvolti, cosa vogliono e quali sono le poste in palio – materiali, immateriali, simboliche – significa comprenderne i rapporti di forza, valutarne il potere militare, economico e culturale, riconoscerne il peso del soft power e la capacità di costruire coalizioni. In breve, significa interpretare l’idea che ciascun attore ha di sé e il modo in cui intende rappresentarla nel mondo. Ecco il vulnus di Reykjavík. C’erano due potenze, una in ascesa e l’altra in apparente ma tutt’altro che sicuro declino. C’era un limite invalicabile, ed era la Sdi. C’era una mossa dirompente, ed era la proposta di disarmo totale. Ma, soprattutto, c’era il tempo: manipolato, accelerato, quasi sospeso. Un tempo negoziale che Reagan cercava di dettare, ma che Gorbaciov gestiva con lucidità. Era dunque prevedibile che Reykjavík non avrebbe prodotto risultati, anche se Gorbaciov non lo definì un fallimento. Consapevole che l’idea di eliminare i missili a medio e corto raggio in Europa era stata accolta positivamente dagli Usa, davanti alla stampa mondiale parlò di «una svolta, non una disfatta. Un nuovo inizio». Perché il negoziato è già azione, anche quando non produce accordi. Anche quando si limita ad aprire un varco. Anche quando cambia il modo in cui due nemici si guardano. Ed è questa una grande lezione per i tempi che stiamo vivendo.
L’opzione doppio zero
Così fu. Ginevra e Reykjavík spianarono la strada al Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) dell’otto dicembre 1987 che, firmato a Washington, segnò la prima eliminazione effettiva di una categoria intera di armi nucleari, nello specifico di quelli a medio e corto raggio terrestri. Non solo: si stabilì la distruzione dei lanciatori associati, l’applicazione globale delle misure, l’introduzione di ispezioni intrusive reciproche, l’obbligo di verifica costante anche dopo il periodo iniziale e, per la prima volta, i sovietici accettarono controlli a terra. Tutto ciò rientrava all’interno della «opzione doppio zero», ossia la «eliminazione dal teatro europeo dei missili nucleari terra-terra di portata compresa tra i 500 e i 5.000 chilometri[4]». Il fatto che si accettasse di distruggere delle armi assumeva evidentemente un’importanza eccezionale. Difatti, l’accordo di Washington portò alla distruzione di quasi 2.700 missili tra Usa e Urss e aprì una scia, cui contribuì la pressione degli alleati europei come Germania, Regno Unito e Italia, che venne ripresa l’anno seguente a Mosca. Dal 29 maggio al 3 giugno 1988 Reagan e Gorbaciov s’incontrarono nella capitale di un’Unione Sovietica prossima alla disintegrazione per firmare accordi simbolici su questioni minori come gli scambi studenteschi e i diritti di pesca.
Nel frattempo, erano emerse le premesse del disarmo. Oltre ad acconsentire alle ispezioni destinate a controllare l’applicazione degli accordi sul territorio nazionale, Gorbaciov accettava di non dare più una proporzionalità rigorosa alle riduzioni degli armamenti e di abbandonare la condizione dell’arresto del programma Sdi. Cosa non da poco per Mosca: secondo i dati pubblicati da Le Monde[5] nel gennaio 1989, le forze del Patto di Varsavia contavano su oltre tre milioni e mezzo di effettivi – dei quali ben 2.458.000 erano sovietici – a fronte di una forza pressoché equivalente schierata dalla Nato. Ma era sul terreno che l’Urss mostrava la propria superiorità: i carri armati in dotazione erano tra 51.500 e 59.400, contro i 30.694 della controparte occidentale; i mezzi blindati per il trasporto truppe toccavano quota 93.400, di cui 64.000 sovietici, contro poco più di 40.000 in seno alla Nato. Ancora più marcato era lo squilibrio nel campo missilistico: oltre 44.000 missili armati secondo le stime Nato, di cui 36.500 attribuiti all’Unione Sovietica, contro gli 11.450 dell’Alleanza Atlantica.
In effetti, dal 1973 al 1983 si stima[6] che i sovietici abbiano fabbricato 2.000 missili intercontinentali, 54.000 carri armati e veicoli blindati, 6.000 arei da bombardamento tattico, 85 navi da superficie, 61 sommergibili d’attacco. Le cifre americane erano di 350 missili intercontinentali, 11.000 carri armati e veicoli blindati, 3.000 aerei da bombardamento tattico, 72 navi da superficie e 27 sommergibili d’attacco. Il quadro si invertiva però in termini di qualità e di capacità strategiche. I mezzi occidentali erano in molti casi più moderni, precisi e affidabili – basti pensare agli aerei dotati di sistemi radar, missilistici e di comunicazione più avanzati. Sulle armi nucleari strategiche (a lungo raggio, intercontinentali) c’era parità, mentre la Nato era superiore nelle forze oceaniche – con 499 grosse navi di superficie contro le 102 del Patto di Varsavia, incluse 15 portaerei – e nei sottomarini nucleari.
Usa e Urss a confronto
Quella del progresso tecnologico non era certo l’unica difficoltà riscontrata dall’Unione Sovietica negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Quando si parla di questa distensione e della volontà di aprire un dialogo tra le due potenze non si può non tenere conto di almeno tre difficoltà che permeavano l’Urss. Innanzitutto, quella economica. Già dagli anni Settanta l’economia sovietica aveva iniziato a rallentare, nonostante l’ideologia trionfalista all’epoca di Nikita Krusciov avesse annunciato che «nel 1980 supereremo il livello dell’economia statunitense». Durante l’epoca di Brežnev si iniziò invece a parlare di zastoj, stagnazione: il Pil cresceva pochissimo, la produttività era molto bassa, il sistema pianificato non incentivava l’innovazione ma soprattutto mancavano stimoli alla concorrenza e al miglioramento tecnologico. Ciò rispondeva a una logica ben precisa, consacrata dalla nuova Costituzione del 1977 secondo cui non la lotta di classe, bensì la potenza del partito, la forza militare e la politica estera erano il vero volto dell’Urss. Di riflesso, il modello sovietico era incentrato sull’industria pesante (acciaio, carbone, armi) e una parte enorme del bilancio statale era dedicata alla difesa. Mantenere la parità nucleare e sostenere la corsa agli armamenti con gli Stati Uniti generò però due problemi. Nel campo tecnologico-scientifico Mosca accumulò un ritardo significativo rispetto ai Paesi occidentali. Un altro settore trascurato divenne quello dei beni di consumo. Nel 1981 circa il 40 per cento della popolazione sovietica viveva sotto la soglia minima di povertà, la spesa per gli alimenti rappresentava oltre il 60 per cento del reddito delle famiglie povere, il 67 per cento dichiarava che il vestiario fosse un problema “grave” e solo il 55 per cento aveva una lavatrice, contro il 74 per cento negli Usa e il 90 per cento in Italia[7].
L’intervento sovietico in Afghanistan (1979-1989) fu un ulteriore fardello. L’invasione non solo fallì nel suo obiettivo tattico, ma contribuì a delegittimare l’Urss agli occhi del mondo musulmano, a minare la stabilità interna del regime sovietico stesso, a demoralizzare tanto i soldati quanto l’industria bellica nazionale e la popolazione, nonché l’opinione pubblica mondiale. Quando Mikhail Gorbaciov, il 15 maggio 1988, annunciò il ritiro di un primo contingente militare sovietico dall’Afghanistan, tutti ebbero la percezione che l’Armata Rossa non fosse più invincibile. Non fu solo l’Occidente a leggere questo passo come un segnale di debolezza, né tantomeno solo i Paesi del “terzo mondo” contrari a questa operazione. In molti, da tempo, tra gli abitanti non russi dell’Unione Sovietica covavano ambizioni autonomiste e il fallimento afghano, parallelamente alla profonda crisi economica, rafforzò questa tendenza. In Polonia, a partire dagli anni Settanta, si era sviluppata un’opposizione politica e sociale senza precedenti che, dopo gli scioperi e le rivolte nei cantieri navali di Danzica, portò nel 1980 alla nascita di Solidarnosc, un movimento guidato da Lech Wałęsa divenuto il primo vero esempio di mobilitazione sociale autonoma nell’Est europeo. In questo contesto fu fondamentale anche l’elezione papale di Karol Wojtyła nel 1978. Il ritorno in Polonia di San Giovanni Paolo II nel 1979 e il suo appello a «non avere paura» diedero nuova forza morale e simbolica all’opposizione, contribuendo a creare un terreno favorevole alla nascita di Solidarnosc. L’iniziativa polacca era comunque tutt’altro che isolata, come dimostrano il gruppo dei 77 in Cecoslovacchia guidato dallo scrittore Vaclav Havel, il Sąjūdis in Lituania, il Rahvarinne in Estonia e il Tautas Fronte in Lettonia, la caduta del muro di Berlino del 9 novembre 1989 e la successiva disgregazione dell’impero sovietico.
Si dirà che tutti questi fattori, insieme, abbiano agevolato il ruolo degli americani, facilitando la possibilità di far sedere al tavolo dei negoziati i sovietici e alzando la posta in palio. Ciò è innegabile, ancor più se si considera la potenza degli Usa sotto Reagan. A differenza del suo predecessore democratico Jimmy Carter, Reagan aveva puntato fin da subito su una politica estera aggressiva: gli euromissili in risposta ai nuovi missili sovietici a medio raggio installati prima in Asia e poi in Europa, l’installazione dei Pershing e dei Cruise per tornare all’equilibrio, la dottrina Leheman contro la marina sovietica, l’annuncio del programma Sdi, lo sforzo finanziario annunciato dal segretario alla Difesa Caspar Weinberger per aumentare del 50 per cento il bilancio militare. Se l’Urss era alle prese con un’economia al collasso, tra il 1982 e il 1984 l’economia avrebbe dominato l’agenda di Reagan (fino al 63 per cento dei suoi discorsi), plasmando, in pendant con il primo ministro britannico Margareth Thatcher, la Reaganeconomics, basata sulla deregulation, sul taglio delle tasse, sulla riduzione dell’intervento dello Stato, sulla liberalizzazione del commercio e sul contenimento della spesa pubblica. Queste politiche produssero una crescita economica significativa – specie dopo la recessione del 1980-1981 – e un’espansione record durata 92 mesi, ma anche un triplicarsi del debito pubblico nazionale (aumentato a tremila miliardi di dollari), un passaggio degli Usa da nazione creditrice a debitrice, uno degli sgravi fiscali maggiori mai concessi alle fasce più alte di reddito (dal 70 al 50 per cento) e un aumento – anziché una riduzione – dell’apparato burocratico (da 2,8 a 3 milioni di impiegati), senza peraltro considerare che la produzione industriale americana continuava a calare proprio a causa della maggiore apertura americana al commercio globale favorita dal presidente repubblicano[8].
Nonostante queste incognite interne e un nemico esterno che continuava a riarmarsi, Reagan decise in corso d’opera di cambiare l’approccio della sua politica estera. Da un fervente anticomunismo, dalla definizione di «impero del male» affibbiata all’Unione Sovietica in un discorso pronunziato davanti all’associazione evangelica nazionale di Orlando nel 1983, passò a una natura più conciliante[9]. Questo per Reagan significava passare da leader anticomunista a simbolo della distensione e convincere la sua amministrazione – su tutti Caspar Weinberger, segretario alla Difesa dal 1981 al 1987, conservatore, architetto del riarmo massiccio e convinto sostenitore della linea dura in Europa in base alla linea della “nessuna concessione” – a fidarsi dei sovietici. Lo sottolineò anche una celebre frase della “Ironlady” Margareth Thatcher: «Reagan had ended the Cold War without firing a shot». Peraltro, nell’anno in cui Reagan e Gorbaciov s’incontrarono per la prima volta quello sovietico era uno Stato tutt’altro che fallito né tantomeno nessuno considerava così vicina una sua dissoluzione. Anzi, solo pochi mesi prima (l’11 marzo 1985) Gorbaciov era stato eletto come più giovane segretario generale del partito comunista sovietico, sembrava godere di un’autorità incontrastata grazie alla sua esperienza come braccio destro di Černenko e all’appoggio dei militari e del Kgb, stava lavorando intensamente ad una riforma interna – attraverso la Glasnot e la Perestrojka – volta a migliorare l’efficienza del sistema nazionale.
La vera forza di quei negoziati
Nessuno dunque nega che ogni attore avesse un interesse a negoziare anziché a spararsi addosso – gli americani per furbizia, i sovietici per disperazione, volendo grossolanamente sintetizzare –, ma non si può dire che sia stato facile, né per Reagan né per Gorbaciov, decidere di negoziare e di fidarsi l’uno dell’altro su un tema delicato come quello del disarmo. Che, dopo Ginevra, Reykjavík, Washington e Mosca, fu portato a compimento il 31 luglio 1991, non da Reagan bensì dal suo successore George Herbert Walker Bush che, pur essendo il suo vice, diede una certa continuità alla politica americana. In quell’occasione Stati Uniti e Unione Sovietica firmarono il Trattato di Riduzione delle Armi Strategiche, noto come Start I, segnando una pietra miliare nella storia del controllo degli armamenti nucleari.
Come indica il nome, a differenza degli accordi Salt (Strategic Arms Limitation Talks), che ponevano solamente delle limitazioni agli armamenti, lo Strategic Arms Reduction Treaty venne negoziato con il preciso impegno di ridurre le armi atomiche, in particolare il 30 per cento dei rispettivi arsenali, fissando così il massimo di 6.000 testate nucleari e 1.600 vettori (missili intercontinentali, lanciatori da sottomarino, bombardieri pesanti) per ciascuna delle due potenze. Fin dal preambolo, il documento sottolineava il riconoscimento da parte di entrambe le potenze delle terribili conseguenze di un conflitto nucleare e ribadiva come la stabilità strategica fosse un presupposto essenziale per la sicurezza internazionale.
A differenza del Trattato Inf, che regolava le armi a medio raggio, lo Start riguardava quelle dotazioni nucleari in grado di colpire a distanze intercontinentali. Secondo la definizione prevalente in ambito militare e condivisa dal trattato stesso, si trattava di missili balistici intercontinentali (Icbm), missili lanciati da sottomarini (Slbm) e bombardieri pesanti: tutti strumenti di attacco a lungo raggio. Essendo limitato alle armi offensive, il trattato non affrontava direttamente le questioni relative ai sistemi difensivi, come ad esempio il progetto americano di difesa spaziale Sdi, considerato al di fuori del campo di applicazione dell’accordo. Un aspetto centrale del trattato era il suo meccanismo di verifica reciproca, articolato in modo dettagliato negli articoli 11 e 12, che prevedevano ispezioni incrociate disciplinate da un apposito Inspection Protocol. Infine, l’articolo 15 istituiva una Joint Compliance and Inspection Commission (Jcic), incaricata di dirimere eventuali controversie sull’attuazione del trattato, rafforzarne l’efficacia e valutare l’applicabilità delle sue disposizioni a eventuali nuove tipologie di armamenti strategici offensivi. Lo Start I perse gran parte della sua forza vincolante a causa della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Gli obblighi del trattato furono ereditati da alcune repubbliche ex sovietiche in possesso di armamenti nucleari, come Bielorussia, Kazakistan e Ucraina.
Fine della pace?
Iniziava così il crollo del mondo bipolare. Per molti è stato un bene: la guerra fredda era contrapposizione ideologica tra blocchi ostili, fatta di simboli polarizzanti come cortina di ferro, muro portante e ombrello nucleare, capaci di trasformare gli animati spazi della società civile in teatri di divisioni profonde e di attacchi terroristici, combattuta sì sul piano politico ma pure sul terreno, magari nelle periferie del mondo decolonizzate solo formalmente. Per chi invece nella guerra fredda vedeva un’integrazione tra sistemi capace di garantire sicurezza e di dividere il mondo in sfere d’influenza, intendendola dunque come unica vera alternativa alla guerra calda, è stato un male di cui ancora oggi si pagano le conseguenze. Anzi, secondo molti i mali della contemporaneità – la sovraestensione della superpotenza americana, quindi il suo rapporto con la globalizzazione e i mali interni alla società statunitense, poi la guerra in Ucraina, quindi il rapporto tra Paesi occidentali e la Russia, e la cieca fiducia in una pace considerata eterna – sono nati proprio in quegli anni di distensione mal attuata.
Nel frattempo, però, a Reagan e Gorbaciov non può che essere riconosciuto il merito di aver aperto un’intercapedine. Perché proprio lì, in quella fessura della struttura granitica della Guerra Fredda, cominciò a filtrare qualcosa di nuovo: la possibilità di parlarsi. E, nel parlarsi, il potere sottile dell’ascolto. Il negoziato non fu solo una tecnica, ma una postura mentale. Si trattava – come ricorda ogni manuale serio di diplomazia – di riconoscere l’altro, ascoltarlo senza cedere, senza implodere, ma anche senza arroccarsi. Capire cosa vuole, quali sono le sue linee rosse, quale linguaggio parla davvero, e quali simboli muove.
In quella crepa entrò la luce del dialogo: non la pace facile, non il compromesso svenduto, ma la distensione come processo che riconosce il valore del limite. Ogni negoziato, per funzionare, deve avere spazi di manovra creativa. Il vertice di Ginevra di quarant’anni fa non fu l’alba di un’utopia, ma l’inizio di un esercizio difficile: quello del compromesso. E allora oggi, nel tempo fragile che viviamo, quella lezione resta quanto mai attuale. Perché negoziare non è cedere, ma saper restare nella complessità, governarla e trarne un ordine possibile. Perché – come ricordava lo scrittore Leonard Cohen – «c’è una crepa in ogni cosa, ed è lì che entra la luce».
[1] Mania A., «Gorbachev-Reagan Summit, November 1985: Documentary Study», Journal of American Studies, 2024.
[2] Cfr. Harper J. L., «La guerra fredda – Storia di un mondo in bilico», Corriere della Sera – Geopolitica capire gli equilibri del mondo, a cura di Federico Rampini, Milano 2022, pgg 248-259.
[3] Cfr. Yost D. S., «The Reykjavík summit and European security», SAIS Review (1956-1989), vol. 7, no. 2, 1987, pp. 1–22.
[4] Questa definizione è data dall’ingegnere generale Paul-Ivan de Saint-Germain in «L’accord sur les missiles intermédiares», Stratégiques, 1989, n. 2 pp. 65-71.
[5] Qui si fa riferimento alla statistica utilizzata da F. De Rose nella sua opera «Défendre la défense», Parigi, Julliard, 1989, p. 202.
[6] Duroselle J-B., «Storia diplomatica dal 1919 ai giorni nostri», edizione italiana a cura di Pietro Pastorelli, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 1998, pag. 703.
[7] Matthwes M., «Poverty in the Soviet Union», The Wilson Quarterly (1976), Vol. 9, No. 4 (Autumn, 1985), pp. 75-84.
[8] Pfiffner J. P., «The paradox of President Reagan’s leadership», Presidential Studies Quarterly, Vol. 43, No. 1 (March 2013), pp. 81-100.
[9] Gaddis J. L., «La guerra fredda. Cinquant’anni di paura e speranza», Mondadori, Milano 2007.