Un bambino lasciato per due mesi in ospedale in attesa di una famiglia affidataria, una donna – immaginiamo – nell’assoluta solitudine anche in gravidanza, e istituzioni e società civile che faticano a fornire sostegno e risposte a una situazione sicuramente complessa e dolorosa. Con Alessia Rossato, responsabile dell’ambito minori e affido della Comunità Papa Giovanni XXIII, cerchiamo di comprendere meglio la vicenda del piccolo Ivan, trovato con la mamma lo scorso dicembre in un cantiere edile a Palermo e rimasto appunto 60 giorni in ospedale, da quando la mamma ha deciso di allontanarsi lasciandolo nella struttura sanitaria.
Quali riflessioni provoca la vicenda del piccolo Ivan?
«Le riflessioni da fare purtroppo sono moltissime. Pensiamo a questa donna, di cui forse nessuno si è accorto in 9 mesi, e chiediamoci: chi l’ha accudita? Poi c’è l’assurdità dei tempi burocratici, così lunghi da non riuscire a offrire una famiglia adottiva a un neonato in stato di abbandono. Inammissibile. Con i piccoli occorre rispondere ai bisogni primari, fra cui l’accudimento affettivo, fin da subito».
Di cosa avrebbe avuto bisogno Ivan?
«Di sperimentare un nutrimento, un accudimento “caldo”, delle relazioni e della cura di una famiglia. È un’ingiustizia lasciare per due mesi in ospedale un neonato senza intraprendere altri percorsi temporanei. Certamente sarà stato trattato con amore e attenzione, ma le relazioni con gli operatori sanitari sono diverse da quelle che si instaurano in famiglia. Per i piccoli il bisogno di figure genitoriali è un bisogno acuto e profondo: sentirsi accolti, esistere per qualcuno, solo così si può crescere sicuri».
In assenza dei genitori naturali, chi può supplire a questa necessità?
«Il bisogno si può soddisfare con l’affidamento familiare a coppie o a single disposti a fare un tratto di strada con i piccolini: coloro che in gergo si chiamano “famiglie-ponte”. SI tratta di persone formate, capaci di far sperimentare calore nel tempo necessario al rientro in famiglia o alla ricerca di una famiglia adottiva. Non è facile ma è un accompagnamento prezioso».
Non si tratta di un’ulteriore separazione per i piccolini?
«No, è preferibile una separazione piuttosto che l’assenza delle esperienze di attaccamento. La famiglia affidataria, preparata, sarà capace di accompagnare i piccoli anche nel successivo ingresso in una famiglia adottiva. L’affido-ponte è previsto dalla legge, mi domando se nel caso di Palermo si sia provato a cercare famiglie affidatarie, magari chiedendo aiuto anche alle associazioni».
Quali sono, su questo aspetto, le difficoltà dei Tribunali dei minori?
«La disponibilità immediata delle famiglie o, in secondo luogo, di una comunità di tipo familiare. Per questo è necessario che Tribunali e associazioni facciano rete, così da poter chiedere aiuto nelle emergenze. Inoltre, se si trovasse una famiglia disponibile fuori Comune o addirittura in una Regione limitrofa sarebbe comunque una soluzione migliore rispetto al rimanere due mesi nel limbo. Qualcuno potrebbe fare obiezioni sulle distanze e i conseguenti costi, ma rispondere alle esigenze del bambino è sempre prioritario».
Cosa si può fare perché situazioni del genere non ricapitino?
«Occorre promuovere l’affidamento familiare fra i nuclei interessati come fra gli operatori sociali e sanitari, i giudici togati e onorari. L’obiettivo è l’accoglienza temporanea in famiglie affidatarie ben formate, che sappiano accogliere, nutrire e fare un pezzetto di strada con i bambini per poi favorire un buon passaggio verso la famiglia adottiva. L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII ribadisce la necessità di inserire precocemente i bambini in famiglia, in situazioni come quelle del piccolo Ivan la comunità non può essere il passaggio intermedio tra ospedale e famiglia adottiva: i minori accolti in famiglia non si sentono assistiti, ma scelti e amati dalle figure genitoriali e, come direbbe don Oreste Benzi, rigenerati nell’amore ogni giorno. Quando si sentono di esistere per qualcuno, quando si sentono scelti, la vita fluisce».