Un giornalismo che è vivo e vegeto, che sa essere lì dove serve per dare voce ai più fragili e agli invisibili e, non è un dettaglio, con una grande presenza femminile.
Questo il ritratto della professione dipinto nel corso delle Giornate del Premio Giornalistico Internazionale Luchetta 2024, tenutesi a Trieste dal 15 al 17 novembre presso il Teatro Miela: tre giorni densi di incontri, dialoghi, narrazioni e dibattiti che hanno raccontato una volta di più, come accade ormai da 21 anni a questa parte, quanto il giornalismo possa avere ancora un ruolo centrale nelle democrazie, quanto possa essere faro al servizio dei sentieri di pace e sentinella per denunciare la violazione dei diritti dei più fragili. Sette le categorie premiate dalla Giuria presieduta dal giornalista Riccardo Iacona – miglior servizio TV news, miglior articolo stampa italiana, miglior reportage, miglior articolo stampa internazionale e, novità, Premio Rotta Balcanica e Premio Radiofonia – con ben 6 giornaliste risultate vincitrici.
Il Premio giornalistico Internazionale Marco Luchetta nasce nel 2004 – per volontà della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin – nel decimo anniversario dalla tragica morte dei primi inviati RAI a perdere la vita in missione di lavoro: il giornalista Marco Luchetta, Alessandro Saša Ota e Dario D’Angelo, della sede Rai di Trieste, uccisi a Mostar Est nel gennaio del 1994 mentre stavano realizzando uno speciale TG1 per proporre i bambini vittime della guerra balcanica quali candidati al premio Nobel per la pace e, solo due mesi dopo, un altro operatore triestino, Miran Hrovatin, assassinato in Somalia assieme alla giornalista Ilaria Alpi. Giunto alla sua 21a edizione (nel 2015 tra i premiati dall’Unicef vi fu anche l’allora direttore di Famiglia Cristiana, Antonio Sciortino, ndr), il Premio offre sempre uno spaccato importante su quelli che sono i drammi, spesso sconosciuti all’opinione pubblica, che si consumano quotidianamente in tanti angoli del mondo e che, sempre più spesso, portano con sé semi di pace e solidarietà.
Di “Bambine e bambini senza diritti anche in Europa” si è parlato nel pomeriggio di sabato 17 novembre nel corso di un panel con alcune giornaliste finaliste (Livia Liberatore, TGR Rai Fvg, categoria Tvnews e Giulia Sabella e Marzia Amico, Report-Rai 3, categoria Reportage) e con le vincitrici della categoria stampa italiana, Alice Facchini e Iris Biasio, con il servizio “Crescere in carcere” – un interessante connubio tra informazione e fumetti – pubblicato su la Revue dessinée Italia. Tanti gli ambiti nei quali i diritti dei bambini e delle bambine continuano ad essere violati. Tante le storie e i volti incontrati personalmente dalle giornaliste: a testimonianza che “consumare la suola delle scarpe” è e rimane uno dei pilastri della professione. Solo, infatti, recandosi nei luoghi per raccogliere le storie, le giornaliste hanno potuto raccontare al meglio le persone e i loro vissuti trovandosi poi a “inciampare” in storie inimmaginate, frutto di un lavoro di incontro e dialogo con le fonti, che impongono un cambio di sguardo. Storie che diventano servizi importanti, spesso di denuncia, ma molto spesso anche testimonianze di una speranza possibile e concreta.
Di particolare attualità e urgenza il tema dei diritti negati ai figli di madri detenute che per la legge devono stare in carcere: «I bambini in carcere vivono in un ambiente ristretto e con scarsissimi stimoli» ha affermato il pediatra Paolo Siani, presente in collegamento, già ex Vice Presidente Commissione parlamentare Infanzia e Adolescenza «ciò ha un effetto importante sul loro sviluppo cognitivo, ma anche motorio e relazionale. Il fatto che in carcere nessuno usi la parola “mamma” per indicare le madri detenute ha un impatto grave sul loro vissuto. Ricordiamo che questi bambini e queste bambine non hanno un pediatra di base che li segue. Di fatto crescono da emarginati, pur essendo innocenti».
Altro fronte caldo, ma ancora poco raccontato è quello degli orfani e delle orfane di femminicidio: bambini e bambine che nel 36% dei casi (dati Con i Bambini, 2023) hanno assistito all’uccisione della propria madre, che avrebbero bisogno immediato di un sostegno psicologico e che nel 40% dei casi vengono affidati ai familiari più stretti, talvolta anche alla famiglia del padre omicida. Che crescono con un doppio stigma: quello di avere un padre omicida e quello per cui “se la madre è stata uccisa” così dice un pensiero molto diffuso, “qualcosa avrà pur fatto”. Piena di speranza, infine, la storia del centro Svratište che a Belgrado aiuta bambine, bambini e adolescenti che vivono in strada.
A chiusura delle Giornate, la consegna di un riconoscimento da parte di Daniela Schifani Corfini Luchetta, presidente della Fondazione, alla famiglia di Giacomo Gobbato, 26 anni, ucciso a Mestre il 22 settembre scorso mentre difendeva una donna vittima di aggressione: “per ricordare un giovane che ha pagato un prezzo altissimo per non essersi voltato dall’altra parte”, come si legge nella motivazione.
Foto Premio Luchetta