«Io credo che queste derive che sono venute fuori in questa ultima settimana in modo eclatante, ci siano sempre state. Nascoste, non esibite, ma ci sono sempre state», ha detto Liliana Segre, 94 anni, nell’anticipazione diffusa a In Onda, un saggio del contenuto di un’intervista esclusiva concessa a Marianna Aprile, che verrà trasmessa per intero l’11 da La7, «e credo che con questo Governo, si approfitti di questo potere grande della destra, che del resto è stata votata ed è andata al Governo, non è che sia rivoluzionaria, e non ci si vergogni più di nulla. Io ho seguito nelle varie trasmissioni questa seduta, chiamiamola così, inneggiante anche a “Sieg Heil” (“Salve vittoria!” lo slogan nazista che si usava ripere tre volte durante i comizi, dopo i discorsi di Hitler ndr.), quindi anche con questi motti nazisti che purtroppo io ricordo in modo diretto e non per sentito dire. Ora alla mia età dovrò rivedere di nuovo questo? Dovrò essere cacciata dal mio Paese da cui sono stata già cacciata una volta?».
È una domanda che, per l’autorevolezza di chi la pone, per la storia da cui proviene, non può essere elusa guardando il dito, evocando come è accaduto “metodi da regime” per le modalità dell’inchiesta sotto copertura di Fanpage.
Mentre la luna sono risultati che pongono un problema non da poco: Fdl, il primo partito in Italia, che al momento esprime la presidenza del Consiglio, che ha giurato fedeltà alla Repubblica per ricoprire i suoi incarichi, compresa la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta: «La riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», ha davvero due volti, come parrebbe evincersi dall’inchiesta di Fanpage?
Uno pubblico con cui, in Italia e sulla scena internazionale, si pone, con un atteggiamento politicamente spiccatamente orientato a destra, ma all’interno del perimetro delle regole democratiche, riconoscibile come interlocutore plausibile nel contesto delle democrazie pluraliste europee?
E uno, invece, nascosto, in cui in presenza delle nuove leve del partito, anche attraverso figure che hanno ruoli e incarichi istituzionali – due di loro si sono dimesse dopo l’inchiesta – nella formazione giovanile del partito Gioventù Nazionale, irride, al riparo da occhi indiscreti, le idee che afferma in pubblico, rivelando una faccia più estrema, occultata all’esterno, che non disdegna gli slogan nazisti e fascisti, l’inneggiare a Mussolini, le canzonacce di regime?
È una risposta che si deve a Liliana Segre e, per il suo tramite, agli elettori che hanno prestato e prestano fede al volto ufficiale e con essi agli interlocutori nazionali e internazionali che con quel volto si relazionano.
Sulla parola regime occorre, tra l’altro, intendersi, dal momento che la Presidente del consiglio l’ha adoperata per riferirsi ai metodi utilizzati dall’inchiesta giornalistica.
Il World press freedom Index https://rsf.org/en/index di Reporter senza frontiere, l’organizzazione non governativa senza scopo di lucro riconosciuta dall’Onu, che monitora la libertà di stampa in 180 Paesi del mondo, calcola il punteggio di ogni Paese o territorio «sulla base di cinque indicatori contestuali che riflettono la situazione della libertà di stampa in tutta la sua complessità: contesto politico, quadro giuridico, contesto economico, contesto socioculturale e sicurezza».
Per quanto riguarda il parametro del contesto politico si valuta: «Il grado di sostegno e di rispetto per l’autonomia dei media rispetto alle pressioni politiche dello Stato o di altri attori politici; il livello di accettazione di una varietà di approcci giornalistici che soddisfino gli standard professionali, compresi quelli politicamente allineati e quelli indipendenti; il grado di sostegno ai media nel loro ruolo di responsabilizzazione dei politici e del governo nell’interesse pubblico».
Al fondo della classifica, ci sono i regimi autoritari che comprimono la libertà di stampa nella combinazione di tutti i parametri. Agli ultimi dieci posti in ordine decrescente ci sono: Egitto, Myanmar, Cina, Bahrain, Vietnam, Turkmenistan, Iran, Corea del Nord, Afghanistan, Syria, Eritrea. Dove è il potere a infiltrarsi nelle opinioni dei cittadini e dei giornali per reprimerne diritti e libertà. Non per caso ai primi dieci posti ci sono solo democrazie pluraliste, nelle quali, nella migliore tradizione dal Watergate in giù, è l’informazione a cercare di smascherare le contraddizioni del potere, ritagliandosi il ruolo scomodo e a volte rischioso di «cane da guardia» dei poteri costituiti.
Un ruolo che si esplica principalmente nel giornalismo di inchiesta, che «differisce dal normale giornalismo d’informazione, in quanto il giornalista d’inchiesta spesso “crea il fatto, il caso, la notizia”», una modalità e una finalità di interesse pubblico, cui la Cassazione italiana in una sentenza del 2023 ha riconosciuto, «per il suo ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività», tutele più ampie rispetto a quelle del giornalismo comune guidato da interesse pubblico, veridicità dei fatti e continenza espressiva, regole consolidate da tempo nella giurisprudenza. I
l tutto in un alveo normativo che, anche deontologicamente, ammette che il giornalista non renda nota «la propria identità e la propria professione e le finalità» nei casi in cui il farlo comporterebbe «rischi per la sua incolumità o renderebbe altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa» e che si inserisce in una “cornice europea”. Si può ricordare al proposito che nel febbraio 2015 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) pronunciandosi, per la prima volta, sull’utilizzo di telecamere nascoste da parte di giornalisti, finalizzato a un reportage di interesse generale per la collettività, ha dato ragione ai giornalisti, nella sentenza Haldimann e altri contro Svizzera, ritenendo che la condanna in quelle circostanza avrebbe configurato una violazione della libertà di stampa.
Nell’index di Reporter senza frontiere l’Italia si trova al 46° posto, messa peggio di altre democrazie parimenti avanzate: una posizione definita “problematica” e dovuta principalmente al parametro “sicurezza”, dal momento che ci sono diversi giornalisti sotto scorta a causa delle minacce delle organizzazioni mafiose o estremiste, tra loro Paolo Berizzi, dal 2019 sotto protezione in seguito alle intimidazioni seguite alle sue inchiesta sul neofascismo.