Diciamolo subito: non è roba da legge di bilancio. Non è il Pnrr, non è il Superbonus enemmeno il Piano di riarmo europeo o la riforma della Giustizia. Però tocca un nervo scoperto, anzi, due. Famiglia e identità. Nome e sangue. Il senatore Dario Franceschini, uno che non si muove mai a caso, ha buttato lì una proposta durante l’assemblea del Pd. Di quelle che sembrano una boutade da dopocena, e invece aprono il vaso di Pandora: perché non dare ai figli, per legge, solo il cognome della madre? Bum!
Semplice, ha detto lui. Lineare, quasi elegante. «Un risarcimento per un’ingiustizia secolare». Un modo per spezzare quella catena invisibile e testarda che ha sempre inchiodato i figli al padre. All’uomo. Come dire: per una volta, rovesciamo il tavolo, redniamo onore alle madri. Dopo millenni di cognomi spesso padronali, proviamo il contrario. La proposta nasce (e subito inciampa) nel vuoto normativo lasciato dalla Corte costituzionale, che nel 2022 ha tolto di mezzo l’obbligo del cognome paterno, senza però sostituirlo con un modello chiaro.
E così, nel caos del “ognuno faccia come vuole”, Franceschini prova a dettare una linea. Solo che nel Pd non sono tutti d’accordo. Figurarsi fuori. Già, perché se in casa dem qualcuno applaude – Laura Boldrini la chiama “una via”, Valeria Valente parla di “battaglia di civiltà” – in altri corridoi si dissente. Stefano Lepri, ad esempio, non ci sta: «Non è solo patriarcato. Il cognome del padre è anche una forma di responsabilità». E non è nemmeno detto che per una donna emancipazione significhi semplicemente arrivare o possedere ciò che appartiene un uomo, occupando militarmente l’universo maschile. Perché mettere limiti all’altra metà del cielo, che poi a bene vedere è grande come l’infinito? Le donne sanno fare “come” ma anche “più” degli uomini. Meditate gente, meditate.
Ma il vero spettacolo va in scena fuori dal Nazareno. Matteo Salvini scatta come una molla: «Ecco la grande priorità della sinistra! Togliere ai bimbi il cognome del padre!». Gli fa eco Simone Pillon, rispolverando il vocabolario della destra offesa: “genialata contro il patriarcato”, “provocazione”. Federico Mollicone (FdI) la butta sull’equilibrio cosmico: «Dal patriarcato al matriarcato». Insomma, dalla frittata al suo rovescio.
Nemmeno Forza Italia resta a guardare. Il senatore Zanettin, con una smorfia di sopportazione, liquida tutto come “una trovata da palcoscenico mediatico”. Eppure il punto resta lì, in mezzo alla sala, come un tavolo da pranzo capovolto. Franceschini ha osato toccare un totem: il nome di famiglia. Che non è solo anagrafe, è cultura. È possesso, ma anche responsabilità da “buon padre di famiglia”, come si legge nei libri di giurisprudenza. È una certa idea di continuità che, da che mondo è mondo, si è sempre scritta al maschile. Ma attenzione. Perché arriva anche il monito dei giuristi. Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale, avverte: anche il cognome materno imposto per legge rischia di finire nel tritacarne dell’incostituzionalità, a cominciare dall’articolo 3. in altre parole, se il problema era la scelta obbligata, anche il ribaltamento rischia di essere autoritario.
E allora? Allora si resta impigliati tra il diritto e il buon senso, tra il desiderio di uguaglianza e il bisogno di identità. Franceschini ha sparigliato le carte. Ma per ora, il mazzo è di nuovo per terra.