Non è una fatalità, non è mai una fatalità. Le chiamano “morti bianche”, ma non c’è niente di candido in queste tragedie. Il bianco, se mai, è quello delle cisterne esplose o dei fogli su cui si scrivono regole mai rispettate. O, ancora, quello dei camici degli ospedali dove troppo spesso si piangono vite spezzate. Calenzano, vicino Firenze, si aggiunge oggi alla lunga lista di luoghi in cui il lavoro ha tradito chi lo svolgeva, trasformandosi in un nemico letale. Cinque vittime, nove feriti. E una nube tossica che ha oscurato non solo il cielo, ma anche la coscienza di un Paese che non impara mai.
L’incendio scoppiato presso il deposito Eni, come riporta il governatore toscano Eugenio Giani, è stato domato in tempi rapidi grazie al coraggio dei Vigili del Fuoco. Ma non abbastanza rapidamente da salvare chi, a pochi passi dalla deflagrazione, si trovava al lavoro: uomini che non tornano a casa, famiglie in attesa di risposte, di una giustizia che forse non arriverò mai. Ma a che serve la giustizia quando la vita è ormai persa? Fino a che punto lenisce il dolore? È stato un “incidente”, si dirà, come se questo termine bastasse a chiudere la questione. Ma è davvero solo un incidente quando le norme di sicurezza non riescono a prevenire tragedie simili? AS ben vedere le norme di antinfortistica servono proprio a evitare gli incidenti.
Secondo le prime ricostruzioni, l’esplosione sarebbe stata causata dalla perdita di liquido durante le operazioni di ricarica delle autobotti. La magistratura farà il suo corso, stabilirà se quella perdita è la spia di un sistema che continua a trascurare la sicurezza in nome della produttività. Gli operai coinvolti non erano numeri, erano vite. Storie diverse, accomunate dalla stessa fine atroce.
Il procuratore di Prato, Luca Tescaroli, ha aperto un procedimento penale. Bene, ma quanto spesso questi procedimenti finiscono per produrre giustizia? I riflettori si spegneranno presto, come il fuoco nel deposito. E la vita tornerà a scorrere nei pressi di Calenzano, ma con una voragine di dolore che non si rimargina.
La tragedia odierna non colpisce solo chi è stato direttamente coinvolto. C’è una contaminazione invisibile che si propaga ben oltre i confini del deposito. La Società Italiana di Medicina Ambientale lancia l’allarme: le sostanze rilasciate nell’aria – diossine, idrocarburi, monossido di carbonio – mettono a rischio la salute di chi vive nei dintorni. È un’altra eredità velenosa che grava sulle spalle di una comunità già ferita.
Eppure, quante volte abbiamo già assistito a queste scene? Non è la prima esplosione, né sarà l’ultima. Ogni volta si ripete lo stesso copione: cordoglio ufficiale, promesse di maggiori controlli, una manciata di giorni di attenzione mediatica. Poi il silenzio. Ma chi deve pagare non sono solo le famiglie delle vittime, sono anche quei responsabili che permettono che le norme di sicurezza vengano trattate come un fastidioso orpello.
Quello di Calenzano è un monito. Un’altra tragedia che ci ricorda che nel nostro Paese il lavoro, spesso, uccide. E lo fa perché spesso (non sappiamo se è il caso di Calenzano) si accetta di lavorare con regole vecchie, attrezzature inadeguate, procedure approssimative. Le vittime di Calenzano meritano qualcosa di più del nostro dolore: meritano un impegno concreto, una volontà politica e imprenditoriale che metta finalmente la sicurezza al primo posto. Ogni morte sul lavoro è una sconfitta per tutti, un fallimento delle nostre istituzioni, un tradimento dei nostri valori. Non chiamiamole “morti bianche”. Chiamiamole con il loro vero nome: morti evitabili. E, quindi, inaccettabili.
Francesco Anfossi