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L’educazione al dialogo per costruire il Libano del futuro

Nonostante le difficoltà, la scuola delle Suore della carità di santa Giovanna Antida Thouret di Baabda, un quartiere a sud di Beirut, continua a promuovere la convivenza pacifica e il rispetto tra le diverse confessioni religiose. “Qui a scuola i ragazzi imparano cosa vuol dire essere diversi e come rispettarsi, non con le armi, ma con il cuore e il dialogo”, dichiara ai media vaticani suor Wafaa Rached, direttrice dell’istituto

Giordano Contu – Beirut

I figli non sono più tornati a scuola. Un disastro per circa 200 famiglie che hanno perso la casa e abbandonato Beirut. Quando i bombardamenti israeliani in Libano si sono intensificati a inizio anno l’istituto è stato evacuato perché troppo vicino alla zona bersagliata. Una situazione che ha generato angoscia e stress fra studenti, insegnanti e genitori. Dirigenti, insegnanti e famiglie hanno perciò attivato una progetto di emergenza per aiutare i più colpiti fra loro. Così affronta le conseguenze della guerra la scuola delle Suore della carità di santa Giovanna Antida Thouret a Baabda, un quartiere a sud di Beirut, adiacente a Dahiya, la roccaforte di Hezbollah presa di mira dai raid aerei. Nonostante le difficoltà, l’istituto continua a promuovere la convivenza pacifica e il rispetto tra le diverse confessioni religiose, elemento distintivo dell’identità del Libano. 

Un quartiere segnato dalla guerra

«Noi ci troviamo nella zona colpita dalla guerra. Prima del conflitto avevamo poco più di 800 studenti, mentre ora a causa dei recenti bombardamenti che interessano la periferia sud di Beirut, proprio vicino a noi, siamo arrivati a 721 alunni, con età compresa dai 3 fino ai 17-18 anni», dichiara ai media vaticani suor Wafaa Rached, direttrice della scuola. La religiosa racconta che nei mesi scorsi erano state costrette improvvisamente a evacuare l’istituto. Una mattina, mentre gli attacchi aerei divenivano più intensi, avevano invitato i genitori a prendere i figli e riportarli a casa. Le suore ci mostrano le foto scattate coi telefonini in cui si vedono colonne di fumo che si alzano in cielo a meno di un chilometro di distanza. Possiamo solo immaginare i rumori sconcertanti delle esplosioni che terrorizzavano ragazzi, genitori, insegnanti e dirigenti scolastici. 

«Avevamo ripreso l’insegnamento in modalità ibrida — continua la religiosa —, cioè una parte degli studenti presenti in classe e gli altri a casa con la didattica online. Tuttavia, il conflitto aveva creato molta ansia e stress. Molti genitori inoltre hanno avuto le abitazioni distrutte dai bombardamenti. In quel momento abbiamo creato un team d’emergenza per assicurare loro supporto materiale (raccolta di generi alimentari nei supermercati) e psicologico (ascolto telefonico di sfoghi e condivisione delle paure), poi l’assistente sociale ha accolto i nuclei familiari più colpiti ed è iniziata la consegna di pacchi alimentari, prodotti per l’igiene, medicinali, materiale scolastico». Da circa un mese le lezioni sono tornate in presenza. Alla maggior parte delle famiglie però serve ancora aiuto per continuare a fare studiare i figli.

Aiutare chi si trova nel bisogno

La scuola non riesce a rispondere a tutti i bisogni, ma la crisi bellica è stata anche una “occasione” per rafforzare un progetto scolastico di sensibilizzazione alla povertà. Si tratta di educare i giovani sull’importanza di aiutare chi si trova nel bisogno e in situazioni di fragilità. «Sebbene la maggior parte dei nostri alunni provenga da contesti di povertà, è interessante notare che spesso sono stati proprio gli studenti che mancano di tutto  i più attivi, generosi e impegnati in questo progetto di aiuto alle famiglie colpite dalla guerra. Perché il povero sente la sofferenza del povero e si mette subito al servizio degli altri», spiega suor Rached. Insomma, come un’attività scolastica insegna ai giovani il valore della cittadinanza, così gli educatori hanno usato anche il fenomeno bellico per formare la prossima generazione di adulti impegnati e responsabili.

A differenza della guerra, che divide le genti e le polarizza in due schieramenti contrapposti, «mai all’interno della scuola qualcuno dice all’altro “tu sei musulmano”, “tu sei cristiano”. È da qui che si parte per costruire il Libano del futuro. Perché qui a scuola i ragazzi imparano cosa vuol dire essere diversi e come rispettarsi, non con le armi, ma con il cuore e il dialogo», prosegue la direttrice. Certamente, la guerra ha fatto sentire i suoi nefasti  effetti anche all’interno della scuola a Baabda, dove gli alunni sono per metà musulmani e per metà cristiani.

Oltre ogni differenza di credo

«Alcuni studenti musulmani erano frustrati perché la loro comunità era colpita direttamente da Israele e si chiedevano: “Perché noi e non gli altri?”. A scuola li abbiamo rincuorati dicendo chiaramente: “Qualunque sia la tua religione, qui serviamo l’essere umano. Per noi, siete persone, non etichette religiose”. Con i ragazzi affrontiamo sempre questi argomenti insieme e li discutiamo apertamente: “Cos’è la differenza? Cosa vuol dire accogliere l’altro? Cosa significa amare chi è diverso da me?’ Abbiamo avviato percorsi di riflessione per aiutare i giovani a esprimere la violenza e il rifiuto che sentono dentro, e da lì siamo riusciti ad avvicinarci gli uni agli altri», conclude suor Rached.

L’attenzione della scuola delle Suore della carità a Beirut oggi più che mai è focalizzata sull’educazione ai valori umani ed evangelici. Grazie alla speranza, cui è intitolato l’Anno santo, anche la guerra si è trasformata in un’occasione di apprendimento, come se fosse uno degli incontri scolastici del “club filosofico” in cui si incoraggiano il confronto, la collaborazione, la conoscenza reciproca. Perché, come ci ha detto la direttrice: «Se non lo conosci, resta un nemico. Se lo conosci, può diventare un fratello, anche se diverso».



Dal sito Vatican News

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