di Lorenzo Rossi
Un verdetto che scuote la Quinta Repubblica. Marine Le Pen è stata colpita al cuore da una sentenza del tribunale di Parigi: cinque anni di ineleggibilità, immediatamente esecutivi. Tradotto: la sua corsa all’Eliseo nel 2027 potrebbe essere finita ancor prima di cominciare. A questo si aggiungono quattro anni di reclusione, di cui due da scontare con il braccialetto elettronico (come per Sarkozy). Il capo d’imputazione – appropriazione indebita di fondi europei – non è nuovo nella politica d’oltralpe, ma il tempismo e la severità del giudizio lasciano poco spazio all’interpretazione. O forse troppo. Il Rassemblement National è in subbuglio. Il lunedì pomeriggio, Marine Le Pen si è barricata nella sede parigina del partito, circondata dal suo stato maggiore. È una mossa da tempo di guerra. L’attacco giudiziario, che arriva in un momento cruciale per la riorganizzazione della destra europea, potrebbe costringere il partito a scegliere un nuovo standard-bearer. Il nome? Il più accreditatio è certamente Jordan Bardella, il giovane delfino, l’uomo della transizione che rassicura la borghesia ma galvanizza la base.
«Faremo appello», ha annunciato l’avvocato Rodolphe Bosselut. Ma l’appello dovrà arrivare in fretta e con un verdetto più indulgente: senza una sospensione dell’esecuzione immediata, la Le Pen è fuori gioco. Il vero interrogativo, però, va oltre il destino personale della leader: siamo di fronte a un atto di giustizia o a un’operazione chirurgica per neutralizzare l’unica vera alternativa antisistema? Le reazioni sono da polarizzazione perfetta, come in ogni democrazia in crisi d’identità. Robert Ménard, sindaco di Béziers, grida allo scandalo: «I giudici si sostituiscono al suffragio universale». Laurent Wauquiez (LR) parla di una «decisione eccezionalmente pesante» e si dice preoccupato per le conseguenze sul libero gioco democratico. Jean-Luc Mélenchon non perde l’occasione per tornare al suo vecchio cavallo di battaglia: «La revoca di un eletto spetta al popolo. Serve una VI Repubblica». Lo incalza Éric Zemmour: «La Le Pen è legittimata. Spetta agli elettori giudicare». E così si ripropone in tutta la sua virulenza il conflitto tra politica e giustizia, tra governo e magistratura, laddove la prima accusa la seconda di interferenza e giacobinismo e asserisce che la sua ultima legittimazione spetta al popolo. Non a caso la Le Pen ha già ricevuto la solidarietà degli autocrati populisti di mezzo mondo, da Orban a Putin a Erdogan. Mentre la seconda accusa la prima di populismo.
Ma non tutto il Parlamento si muove all’unisono. Prisca Thévenot (Renaissance) invita al rispetto della giustizia: «Nessuno è sopra la legge». Marine Tondelier (EELV) attacca: «Chi predica rigore lo applichi anche a sé stesso». E Fabien Roussel (PCF), con una citazione da La Fontaine, chiude il cerchio: «La legge deve valere per potenti e miserabili allo stesso modo». Nel frattempo, la macchina giudiziaria non si ferma. Il partito di Le Pen è stato condannato a pagare due milioni di euro – uno senza condizionale – e a restituire fondi illecitamente ottenuti. Dei 24 imputati, uno solo è stato assolto. Anche Bruno Gollnisch, ex numero due del RN, condannato, ha annunciato il ricorso. Marine Le Pen, che ha lasciato l’aula prima ancora della lettura della sentenza, parlerà ai francesi nel prime time televisivo. È una mossa da leader ferita ma non sconfitta, che sa bene come spostare la battaglia dal tribunale allo studio TV.
Nel frattempo, Éric Ciotti si domanda se «la Francia sia ancora una democrazia», evocando una “caccia alle streghe” contro i candidati “troppo a destra”. «È sempre la stessa storia, da Fillon a Le Pen». Jordan Bardella, il golden boy della nuova destra francese, prende la parola: «Non è solo Marine Le Pen a essere stata condannata. È la democrazia francese a essere stata giustiziata». Il fronte si è spaccato. Le toghe, volenti o nolenti, sono entrate nel gioco politico. Ora la destra deve scegliere se resistere, rilanciare, o ripiegare. E il popolo francese si ritrova ancora una volta davanti allo specchio deformante della sua democrazia imperfetta. Passeremo dalla Tv alla piazza?