Il racconto delle Messe celebrate per sette anni nella cappella vaticana, che fin dal primo momento hanno contribuito a far conoscere il profilo spirituale e pastorale del Papa e la forza di un linguaggio innovativo, che caratterizzerà il suo insegnamento
Alessandro De Carolis, Tiziana Campisi, Benedetta Capelli – Città del Vaticano
Adesso che è l’ora dei bilanci, delle narrazioni mediatiche del Pontificato e delle analisi sui temi portanti che hanno caratterizzato il Papa della speranza e della fraternità, degli scartati e della misericordia, nessun racconto su ciò che è stato l’edificio del magistero costruito da Francesco può prescindere dal cantiere in cui quell’edificio ha visto posare, per così dire, le prime pietre. Passando in rassegna i sette anni di omelie tenute nella cappella di Casa Santa Marta – da marzo 2013 a maggio 2020 – non è difficile rintracciare una prima espressione, una prima forma e una prima forza impresse da Papa Bergoglio a quegli argomenti che più gli stavano a cuore, poi sviluppati in forma compiuta in discorsi e documenti.
Il Papa prossimo
È nella quiete “parrocchiale” di quella cappella, che il 23 aprile scorso gli ha dato l’ultimo saluto, che Francesco, “parroco” del mondo, comincia a farsi conoscere a fondo nel suo stile di pastore. Un Papa senza distanze, come dimostra la celebrazione della Messa, più volte a settimana, davanti a gente comune, conclusa dal saluto e una stretta di mano offerti a tutti i presenti, uno per uno all’uscita dalla cappella. E come dimostra quel suo linguaggio intriso di spontaneità, tanto vicino alla gente quanto lontano da fumoserie concettuali, e spesso insaporito da qualche termine preso a prestito dalla lingua madre.
Gli ultimi, i primi di Francesco
Dunque è del tutto coerente con il Pastore che vuole avere lo stesso odore delle sue pecore – e che insegnerà a guardare il centro dalle periferie e con il gusto dell’iniziativa che scardina i protocolli – il fatto che la stagione delle liturgie mattutine si apra in sordina, con l’invito a una categoria tanto preziosa quanto difficilmente accreditata dell’onore dei primi posti. Alle 7 del 22 marzo 2013, quando su Roma è buio, sono i giardinieri e i netturbini che lavorano in Vaticano a riempire la cappella e poi ad ascoltare la prima omelia di Francesco a nella Cappella di Casa Santa Marta. Il giorno dopo sono altre maestranze della Santa Sede, dipendenti della serra, suore… E così via, settimana dopo settimana, fino a ospitare una moltitudine di fedeli delle parrocchie romane. Quella che era parsa una Messa estemporanea, un episodio marginale dell’agenda pontificia, diventa ben presto, negli anni, un appuntamento per migliaia di persone “normali”, gente che mai avrebbe pensato di stare un giorno a tu per tu col Papa.
Parole mai sentite
Dio “che non ha la bacchetta magica” ma salva con la perseveranza, “Gesù che non esclude nessuno”, la “Chiesa che non è una baby sitter” e neanche “una ong” ma “una storia d’amore”, lo Spirito “che non si addomestica” e la “fede che non è una truffa” (anche se ci sono “ideologi che falsificano il Vangelo”), i pastori “carrieristi” che talvolta “diventano lupi”, i cristiani persone della gioia e non malinconiche facce “da peperoncini all’aceto”, le comunità chiuse “che non sanno di carezze ma di dovere”, ma anche l’invito a evitare le chiacchiere e a “fare il maquillage alla vita”, la “grazia delle lacrime”, la pace “che non ha prezzo”, i confessionali “che non sono una tintoria” ma da accostare con “benedetta vergogna” – ovvero i concetti e le parole che diventeranno nel tempo la cifra dell’insegnamento del Papa – fioriscono nessuno escluso in quelle primissime settimane dopo l’elezione. Prende vita un Vangelo “secondo Francesco”, accessibile, vivido, immediato. Che provoca il pensiero e tocca il cuore. Che conquista orecchie indifferenti. L’eco di quelle Messe sorprende, commuove, è come uno scalpello che colpo dopo colpo delinea il profilo spirituale del Papa venuto dalla fine del mondo.
Dalla Radio del Papa al mondo
Da quel momento la Radio Vaticana è investita di una grande responsabilità: per volontà stessa del Papa sono i suoi cronisti a selezionare ogni volta tre inserti audio tratti dall’omelia, uno dei quali per il video, che poi verranno diffusi tra i media del mondo, previo assenso della Segreteria di Stato. E così, in piena coerenza con un Papa che ama avviare processi, la Cappella di Santa Marta si staglia come fulcro atteso e imprescindibile per capire il pontificato. E più avanti, lo dimostrerà la segregazione imposta dal Covid, sarà la “casa” del conforto per milioni di persone collegate da tutto il mondo, cui la pandemia ha strappato ogni sicurezza.
L’efficacia dell’immediatezza
Dunque, quella che emerge nelle omelie pronunciate nella Cappella di Casa Santa Marta è una “teologia della quotidianità”. Francesco innesta il Vangelo nella vita quotidiana, spiega in che modo incarnare la Parola nella realtà delle piccole cose, utilizzando qua e là fatti o aneddoti. Le omelie di Francesco sono brevi, come le ha sempre raccomandate, non lunghe, noiose, retoriche. Per lui la Parola deve arrivare diretta alla gente, essere una bussola nelle strade dell’esistenza. Per questo le sue parole risultano vivaci, ricche di metafore tratte da vicissitudini concrete. Sono i consigli di un pastore che conosce bene la cura del gregge, per averci vissuto sempre negli anni di a Buenos Aires, condividendo tutto, anche un viaggio in metropolitana.
Umiltà e clericalismo
È lo stile che usa sempre, anche per i temi più “alti”, come quando il 18 aprile 2013 spiega che la fede cristiana è credere realmente in tre Persone, “perché questo è il nostro Dio, uno e trino; non un dio indefinito e diffuso, come uno spray sparso un po’ ovunque”. Nel giugno dello stesso anno, parlando della necessità dell’umiltà, afferma che senza non si può “pretendere di annunciare Cristo o essere suoi testimoni” e questo, aggiunge col solito stile franco, “vale anche per i sacerdoti”: il dono della grazia di Dio, scandisce, “è un tesoro da custodire in vasi di creta” e nessuno può appropriarsene “per il proprio personale curriculum”. In molte omelie, Papa Bergoglio traccia l’identikit del cristiano. Il credente, sostiene, si muove lungo un cammino “aperto agli altri”, e quindi bando al “sentirsi importanti” perché si è cristiani. Il modello è Gesù, che dava fastidio poichè “spiegava le cose perché la gente capisse bene” e “viveva quello che predicava”, con la chiosa contro l’“atteggiamento clericalistico” del prete-principe “che dice una cosa e ne fa un’altra”.
Le “chiacchiere criminali”
Il tema della misericordia, che nel diventerà l’architrave di un Giubileo, echeggia molto spesso tra le volte della Cappella. “Dio perdona tutto, altrimenti il mondo non esisterebbe”, afferma Francesco nel dicembre 2015, e nel 2017, per evidenziarne la misura senza misura, assicura che “Gesù spreca misericordia per tutti”. Parlando della preghiera, in un’omelia di inizio 2016, Papa Bergoglio la definisce il vero motore della vita della Chiesa e nel 2018 insiste sulla necessità di pregare senza mai stancarsi con questo invito: “Nella preghiera siate invadenti”. Altro tema, che tornerà in mille discorsi ma che ha in Santa Marta una primissima cassa di risonanza, è quello dei pettegolezzi. Seminano invidia, gelosia, bramosia di potere, mette in guardia il Pontefice. Cose per cui si può arrivare a uccidere una persona: “Le chiacchiere sono criminali perché uccidono Dio e il prossimo”.
La pace e il “pane sporco” della corruzione
I confini della Cappella coincidono con quelli del Pianeta. Il Papa degli infiniti appelli alla pace, specie negli ultimi anni di pontificato, si sofferma in molte circostanze sull’urgenza della pace, definita “un lavoro di tutti i giorni”. In un’omelia del 2017, ricordando Noè, ribadisce che il ramoscello d’ulivo è “il segno di quello che Dio voleva”, un valore forte che noi, osserva, accettiamo però “con debolezza”. C’è, aggiunge, una tentazione della guerra che annida nello “spirito di Caino”, mentre quella di Adamo ed Eva, nota in un’altra occasione, mostra che il diavolo “è un truffatore”. Papa Bergoglio parla non di rado pure del “Grande Bugiardo”, il demonio che “ti promette tutto e ti lascia nudo”, col quale è vietato “dialogare”. Il passo verso l’altro grande nemico della corruzione è breve. Il Papa già nel 2013 lo chiama “il pane sporco”, “furbizia” che alimenta la mondanità, che spesso comincia “con una piccola cosa” e “a poco a poco, si cade nel peccato”.
Covid, la tempesta “inaspettata e furiosa”
E poi c’è quel momento del pontificato di Francesco nel quale la sua paternità, fatta di cura, prossimità, attenzione si è espressa con forza. Ha una data di inizio precisa: 9 marzo 2020, giorno nel quale, per suo volere, i media vaticani trasmettono la Messa delle 7 celebrata da Casa Santa Marta. Quella luce rossa accesa sul Papa è in realtà una luce accesa sul Vangelo, che consola un mondo smarrito, chiuso, impaurito dall’epidemia di Covid-19 che soprattutto in Italia atterrisce; muoiono infatti quasi mille persone al giorno. Francesco conosce quei sentimenti, quella barca colpita dalla tempesta “inaspettata e furiosa” che mette in allarme i discepoli, come ricorderà il 27 marzo nello straordinario momento di preghiera in Piazza San Pietro. Una barca su cui siamo “tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda”.
Vicino all’umanità in lockdown
La consuetudine che ha scandito fin lì la celebrazione della Messa del mattino cambia. Se fino ad allora era stata raccontata in sintesi dalle cronache dei media vaticani, ma riservata in presenza a gruppi circoscritti, diventa da quel giorno un momento per tutti. Il Papa, in diretta televisiva, celebra l’Eucaristia mostrando subito il senso di quella scelta. “In questi giorni – spiega – offrirò la Messa per gli ammalati di questa epidemia di coronavirus, per i medici, gli infermieri, i volontari che aiutano tanto, i familiari, per gli anziani che stanno nelle case di riposo, per i carcerati che sono rinchiusi. Preghiamo insieme questa settimana, questa preghiera forte al Signore: “Salvami, o Signore, e dammi misericordia. Il mio piede è sul retto sentiero. Nell’assemblea benedirò il Signore”.
Eco mondiale
In poche parole Francesco abbraccia le piaghe di questa umanità sgomenta e paralizzata. Chi ascolta si sente “guardato”, considerato nel suo dolore spesso vissuto in solitudine, nell’impossibilità di condividere, di stringere un proprio parente, di salutare un nonno, una zia, una vicina, un amico che da un giorno all’altro non si vede più. In questo dramma collettivo, l’appuntamento della mattina diventa un momento di preghiera, di adorazione del Santissimo anche attraverso uno schermo. Il Padre prende in mano così il suo gregge smarrito e questa scelta ha un eco incredibile, e anche in Cina si seguono quotidianamente le celebrazioni dalla Cappella di santa Marta. Ogni giorno, nel cuore di Francesco, si alternano i volti, le storie, le vite di gente comune travolte dalla pandemia.
Una preghiera per ogni categoria sociale
Il 10 marzo, il suo pensiero va ai “sacerdoti, perché abbiano il coraggio di uscire e andare dagli ammalati, portando la forza della Parola di Dio e l’Eucaristia”. Due giorni dopo, esorta a pregare per le autorità chiamate a decidere “misure che non piacciono al popolo”. Il 14 marzo il suo pensiero va alle famiglie con i bambini a casa, chiamati a gestire una situazione difficile con pace e anche con gioia”, ma soprattutto a quelle che vivono con persone disabili, perché “non perdano la pace in questo momento e riescano a portare avanti tutta la famiglia con fortezza e gioia”. Nei suoi pensieri anche le vittime di violenza domestica, con l’incoraggiamento più volte ripetuto alle famiglie perché colgano l’occasione per crescere nel bene.
In quelle settimane il cuore del Papa è un caleidoscopio che non vuole lasciare indietro nessuna categoria sociale. Ricorda “i lavoratori delle farmacie, dei supermercati, dei trasporti, i poliziotti” (15 marzo), “gli operatori sanitari che sono morti” (18 marzo), “le persone che si occupano di seppellire i defunti, che rischiano la vita e rischiano anche di prendere il contagio” (16 maggio), le “tante persone che puliscono gli ospedali, le strade, che svuotano i bidoni della spazzatura” (17 maggio) – questa l’ultima celebrazione che chiude l’epoca delle Messe mattutine con la Cappella di Santa Marta aperta all’esterno.
Un posto particolare nelle tante intenzioni di preghiera di quei giorni è riservato agli anziani soli che soffrono “di una solitudine interiore molto grande” (17 marzo) e soprattutto ai carcerati. Il Papa denuncia il sovraffollamento degli istituti di pena, comprende la sofferenza dei detenuti pensando alle famiglie fuori (19 marzo), prega “per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento” (7 aprile).
Col passare dei mesi affiora la preoccupazione per chi ha perso il lavoro e comincia a sentire la fame, per chi è vittima della “pandemia sociale”, gente che per mangiare si affida agli usurai, (23 aprile), o per i senzatetto abbandonati per strada “perché la società di uomini e donne si accorgano di questa realtà e aiutino e la Chiesa li accolga” (31 marzo). C’è, inoltre, un pensiero rivolto al Vecchio continente perché sia unito e “riesca ad avere questa unità fraterna che – auspica Francesco – hanno sognato i padri fondatori dell’Unione Europea” (22 aprile). Il Papa ricorda anche chi lavora nei media (1 aprile), le donne in attesa che sono inquiete pensando al futuro del loro bambino (17 aprile), gli insegnanti chiamati ad educare a distanza (24 aprile), e per le vittime dell’aspetto più crudele del covid, chi è sepolto nelle fosse comuni ed è senza nome (30 aprile). Una preghiera anche per gli artisti, che “per mezzo della strada della bellezza ci indicano la strada da seguire” (27 aprile). Poi, il 18 maggio, dopo oltre due mesi, Francesco conclude la Messa in diretta tv, in coincidenza con la ripresa delle celebrazioni in presenza.
Il patrimonio che resta
Le omelie di Santa Marta resteranno ora nella storia del pontificato e della Chiesa. C’è chi ne ha fatto tesoro, chi vorrà leggerle, chi ancora le sconosce. Quella stessa Cappella che per anni lo ha visto spiegare il Vangelo gli ha dato l’ultimo saluto, ma in quello spazio è rimasto il patrimonio di parole, gesti, silenzi di adorazione, e il feretro di Francesco, posto ai piedi dell’altare poco dopo la morte, ha rimandato alle sue parole: “l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i Sacramenti. Sempre”.