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«L’avvento è il tempo delle famiglie che davanti alle sfide non hanno risposte, ma si fanno domande e trovano infinite risorse»


Come stia la famiglia è complicato da dire, ma proviamo a chiederlo a padre Marco Vianelli, direttore dell’ufficio nazionale della pastorale familiare della Cei, che incontriamo ad Assisi durante il convegno Nazionale dei responsabili diocesani di pastorale familiare. «Complicato perché ci accorgiamo che non c’è la famiglia, ma Mario e Maria che sono sposati, Michele e Antonella che vivono la loro storia. Una complessità affascinante e sfidante, ma non riducibile a un’osservazione massivizzata. Se dicessimo se sta bene o sta male lasceremmo fuori la maggior parte delle famiglie che non si riconoscerebbero. Dopo l’esperienza del Covid, le famiglie hanno dato prova di sapersi mettere in gioco, di rispondere a sfide che il sistema stesso non ha saputo gestire. È un tempo che le interroga, in cui sono disorientate perché non hanno risposte ma hanno risorse che si attivano quando vengono provocate». 

Trovare risorse che non sapevi di avere è una dinamica tipica delle famiglie.  
«È così. Sei madre quando hai un figlio che ti fa madre, ma che tipo di mamma sei dipende da tanti fattori. Che tipo di moglie o marito sei dipende dal rapporto, dalla relazione che si costruisce. La famiglia è un soggetto generativo che davanti alle sfide quotidiane ha da dare risposte creative. In questo tempo è sfidata da tante cose, non è nella fase dei frutti ma in quella gestazione delle domande». 

Quali sono le domande delle famiglie?
«In primis di riconoscimento sociale. La famiglia non è più quel dato scontato o un valore a cui aspirare. Non gode più del favor iuris, non ci si realizza più facendo famiglia. La prima domanda, quindi, è di senso: cosa siamo per la società. Anche le politiche italiane non la promuovono. Penso all’assegno unico, al lavoro, alla promozione della donna, ai congedi parentali. Siccome la coperta è corta, si taglia sulla famiglia perché è dato per scontato che “tanto se la cava”». 


padre Marco Vianelli, direttore dell’ufficio di pastorale familiare della Cei



Poi c’è la sfida educativa.
«I figli sono per natura loro provocanti e trovano genitori che, pur avendo strumenti più raffinati dei loro genitori – culturalmente e per competenze affettive più evoluti –   non sanno trovare risposte né dove cercarle. Il tema educativo è una sfida che diventa vulnus, ferita. Anche le altre agenzie educative sono in bornout perché non sempre c’è un riconoscimento sufficiente (scuola, professori, sport etc). La sfida educativa papa Francesco l’ha lanciata già da tempo – la Chiesa italiana ci ha pure dedicato un decennio di attenzione pastorale (2010-2020) -, ma è passata in silenzio quando invece lì c’è una seme di futuro. Che società avremo davanti se non metto nel cuore di chi si avvicina al tema dell’educazione il desiderio di una formazione permanente? Senza ridurre la formazione al fine. La sfida educativa vede tutti un po’ disorientati». 

Altro tema centrale è quello della solitudine delle famiglie, sempre più in città diverse da quelle di origine.
«La famiglia potrebbe generare comunità e reti, invece c’è sempre più solitudine nei nucleari familiari. C’è un anelito alla comunità, ma tanta fatica nel realizzarla. Manca il tempo, altro tema centrale. Non abbiamo il tempo per creare relazioni. E la comunità è lacerata».

Il futuro.
«Il tema del futuro, soprattutto per i figli. I ragazzi vivono il cambiamento climatico, l’incertezza nel lavoro, le migrazioni, il tema del gender. Tutte domande che non avendo forma creano disorientamento. Quella della famiglia è una realtà sfidata che però non si piange addosso, ma sta generando. Questo dell’Avvento è il tempo della famiglia. Dove la risposta nasce dall’ascolto. Pensando a qual è il centro e trovando da lì le connessioni».

Come si avvicina la Chiesa alla famiglia?
«
La Chiesa è fatta di famiglie e la via naturale è incontrare le famiglie della Chiesa in quella prossimità marginale che ti permette l’incontro. La Chiesa è naturalmente in contatto con le famiglie. Quando papa Francesco ha iniziato a dire della Chiesa in uscita molti preti si sono chiesti se la Chiesa fosse in uscita. Ma il mondo della pastorale ha capito che la Chiesa è naturalmente in uscita perché le famiglie fanno cose in parrocchia e in chiesa, ma poi portano i figli a danza, nello sport ed è lì che avviene quella contaminazione naturale della testimonianza». 

Quanto spazio trova la famiglia nella Chiesa?
«Questo è più difficile perché questa soggettività del familiare per quanto l’abbiamo dichiarata da anni non sempre riusciamo a renderla evidente e valorizzarla. Valorizziamo di più il sacramento che l’esserci della famiglia, perché non sempre l’abbiamo capita, forse perché non sempre ci crediamo, perché abbiamo avuto altri strumenti. Questo, invece, è il tempo di rimettere al centro la famiglia nella sua dimensione relazionale, nel suo ruolo di evangelizzatrice insieme ai sacerdoti. Ci salviamo solo insieme, l’uno senza l’altro non riusciamo a costruire la Chiesa. Con l’obiettivo di costruire insieme relazioni diverse, ma non differenti. Come lo sposo e la sposa che insieme generano la famiglia, così la vocazione matrimoniale e quella nuziale non sono interscambiabili ma possono generare insieme. Con un pensare collettivo che rende ragione della complessità delle cose che vede. Il Cammino sinodale è questo, un racconto plurale». 

Il battesimo resta la prima porta di accesso-contatto con le famiglie?
«Il tema della pastorale battesimale è una sfida profonda. Un’occasione in cui c’è qualcuno che ti chiede qualcosa e tu puoi, partendo dalla domanda, provare a esplorare altro con estremo rispetto e delicatezza. Dove abbiamo provato a “fregare” i genitori col catechismo è andata male. Bisogna giocare tra adulti. Se c’è la domanda ti do il tesoro, sennò la pastorale deve generare la domanda. Il desiderio. Quella domanda che è sgrammaticata va accolta e accompagnata ma da adulti ad adulti. Senza funzioni surrettizie. La famiglia tante volte chiede alla Chiesa di sostituirsi e tante volte forse bisogna anche farlo. Rispettare la diversità della famiglia, essere trasparenti nelle regole di ingaggio». 

Qual è l’importanza degli operatori di pastorale familiare?
«Sono fondamentali in primis perché sono famiglie che accompagnano altre famiglie. La fatica che stiamo facendo è di puntare sulla formazione. In una logica non solo di contenuti, ma di spesa e di coscienza di una vita che è già abitata. Sono osservatori preziosi. L’altra fatica che viviamo è coinvolgere le coppie più giovani. Stiamo riflettendo sul perché, se è così anche nel volontariato, nel mettersi a servizio… penso ai rappresentanti nelle scuole… quando, invece, negli anni Settanta c’era il desiderio di dire la propria, di metterci del tuo… Oggi non è più così. Il tempo, le competenze, la mobilità, gli aiuti… Chi mi tiene il figlio mentre faccio volontariato?».   

Cosa vi chiedono gli operatori di pastorale?
«
Una ricetta pronta che non possiamo avere perché non è rispettoso della realtà. E l’altra cosa che chiedono, ma non riescono a dare, è “consegnare” la vita che riescono a generare. Fanno esperienze che non riescono a restituire». 

Cosa potete offrire?
«
Il tema della speranza che aiuta a non soffocare nella costrizione delle cose che stanno vivendo. E questo vale sia per gli operatori di pastorale familiare sia per le famiglie. Aiutare a guardare oltre, restituire l’identità della famiglia che genera e rigenera tanto. Rilanciare il vissuto, anche quando è faticoso, perché ci provoca. Ci chiama fuori e questo è già di per sé una bellezza. Raccontarsi. Possiamo imparare a farlo insieme».





Dal sito Famiglia Cristiana

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