«Questo 25 aprile ha una valenza particolare», precisa Marcello Flores, uno dei massimi studiosi della Resistenza e autore, con Mimmo Franzinelli, del volume Il prezzo della libertà. 40 vite spezzate dal fascismo (Laterza). «È una raccolta di storie emblematiche di uomini e donne uccisi per la loro opposizione al regime di Mussolini. Non eroi monumentali, ma persone comuni che hanno avuto il coraggio di dire no». Per Flores «il termine “Resistenza” oggi viene evocato anche nei conflitti in corso: pensiamo agli ucraini che si difendono dall’aggressione russa, o ai palestinesi sotto attacco israeliano. Senza parificarli, certo, ma la parola ritorna. In Italia, invece, viviamo un paradosso: per la prima volta, gli eredi politici del neofascismo siedono al Governo. Vedremo come ricorderanno l’80° della Liberazione. Di certo, possiamo contare sul presidente Mattarella, atteso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. I suoi discorsi degli ultimi anni sono stati tra i più belli e profondi mai pronunciati su questo tema».
Teme che da parte delle istituzioni possa esserci un approccio riduttivo o persino revisionista?
«Mi auguro che il Governo e le altre cariche dello Stato celebrino la ricorrenza nel pieno rispetto della Costituzione e della verità storica. Ma è legittimo porsi domande. Soprattutto alla luce di una tendenza diffusa a mettere sullo stesso piano repubblichini e partigiani. Un’operazione che, in nome di una memoria pacificata, finisce per annullare ogni differenza. Ma le brigate nere stavano dalla parte dei nazisti e di un regime dittatoriale».
Esiste una storiografia che avalla questa equiparazione?
«Non una storiografia seria. È vero, nel Dopoguerra esisteva una narrazione fascista che tentava di riabilitare la Repubblica Sociale. Penso a Giorgio Pisanò, a certi giornalisti coinvolti direttamente nei fatti che raccontavano la storia dal loro punto di vista. Oggi, la tendenza è quella di minimizzare il ruolo militare della Resistenza, affermando che la Liberazione fu merito esclusivo degli Alleati. Ma, anche strategicamente, la Resistenza fu fondamentale. Lo riconobbero generali come il comandante supremo degli alleati in Europa Eisenhower e gli angloamericani in missione al Nord: i partigiani impedirono la distruzione di infrastrutture, salvaguardarono porti e industrie, rallentarono la ritirata tedesca».
Lei sposta all’indietro l’inizio del movimento partigiano.
«Quella che chiamiamo Resistenza è in realtà figlia non solo della guerra e dell’8 settembre, ma anche di un lungo percorso precedente, cominciato ben prima della presa del potere da parte di Mussolini. Fin dagli anni Venti, alcune minoranze iniziarono una lotta coraggiosa contro il fascismo, spesso pagando con la vita. Il nostro intento era mostrare come esista una continuità ideale, di comportamento e di atteggiamento, tra chi oppose resistenza sin dagli albori del Ventennio e i partigiani degli anni Quaranta. Abbiamo voluto dare un volto a quei martiri, per dimostrare che la Resistenza non fu un episodio isolato, ma un movimento di massa, radicato nel tempo e nella società».
Che ruolo ebbe la Resistenza dei cattolici?
«Un ruolo rilevante. Vi parteciparono molte personalità importanti, e numerose brigate furono espressione del mondo cattolico. La Guerra fredda però portò a una doppia rimozione: da parte delle sinistre, che sottolineavano il proprio primato, e da parte degli stessi cattolici, che per tenere insieme il mondo conservatore preferivano non enfatizzare troppo il loro contributo. Ma figure come Paolo Emilio Taviani, Zaccagnini, Mattei o lo stesso comandante Aldo Gastaldi “Bisagno”, che guidò il movimento ligure, dimostrano quanto fu estesa e attiva quella partecipazione. Solo negli ultimi vent’anni la storiografia ha restituito alla Resistenza cattolica lo spazio che merita».
Si può quantificare il loro peso rispetto alle altre forze?
«Difficile fare una stima precisa: la composizione delle formazioni partigiane variava molto da zona a zona. In alcune aree le Fiamme Verdi — di ispirazione cattolica — furono egemoni. In altre prevalevano le Brigate Garibaldi, d’orientamento comunista. Ma l’elemento cattolico fu sempre presente, anche dove non era maggioritario. La Resistenza è stata, in fondo, un laboratorio plurale, un momento in cui anime diverse si sono ritrovate unite da un obiettivo comune: la libertà. Molti sacerdoti sono stati partigiani, tra cui sei medaglie d’oro. Ben 166 furono uccisi dai nazifascisti. Uno per tutti: il fiorentino don Elio Munari, che voleva diventare il cappellano delle bande partigiane. E non dobbiamo limitarci alle brigate: moltissimi giovani condannati a morte, nelle lettere scritte prima dell’esecuzione, citavano Dio, si affidavano alla preghiera. Quella spiritualità in punto di morte dimostra che la Resistenza cattolica fu molto più ampia di quanto ci dicano i soli numeri».