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La parabola del padrone della vigna al teatro Oscar riscritta da Maria Antonietta in “Dio non è un contabile. Breve storia di un denaro”

Che siano abbazie, eremi, campagne assolate e solitarie, Letizia Cesarini, in arte Maria Antonietta, trova sempre il luogo e il modo di esercitare la sua indole comunicativa, declinandola di volta in volta in espressioni artistiche diverse, dalla musica alla poesia, fino ad approdare ora anche al teatro. La cantautrice e scrittrice ha preso parte al progetto ideato da Luca Doninelli per il Teatro Oscar deSidera La bibbia che non ti aspetti: un ciclo di spettacoli che ha visto autori e autrici cimentarsi con la tradizione giudaico-cristiana per una rivisitazione personale ed ermeneutica delle Sacre Scritture e ora in scena con Dio non è un contabile. Breve storia di un denaro firmato proprio dalla cantautrice marchigiana. La parabola che ha scelto di mettere in scena è quella dei lavoratori della vigna, presente solo nel Vangelo secondo Matteo, in cui un padrone assolda numerosi operai per lavorare nella sua vigna e, a fine giornata, distribuisce a tutti la stessa paga: un denaro, sia a chi aveva lavorato fin dalle prime luci dell’alba, sia a chi aveva iniziato solo nell’ultima ora. Maria Antonietta, che conduce su Sky Arte anche la serie documentaristica Sacra bellezza, si è misurata con un testo ermetico, scomodo quanto basta per mettere in crisi un intero sistema socio-economico. L’abbiamo intervistata per farci raccontare l’approccio drammaturgico al testo biblico.

Musica, arte medievale, poesia e teatro: cosa accomuna queste espressioni artistiche?

«La mia attività principale è il cantautorato, almeno a livello gerarchico. Solitamente scrivo i miei dischi, faccio concerti, tour, ma ho sempre avuto un grande amore per la poesia. Spesso mi è capitato di fare reading e, in modo abbastanza naturale, questa passione per la poesia e per i libri in generale mi ha portata ad avvicinarmi e a contaminarmi con il mondo del teatro e, più in generale, con quello della parola scritta. Ho scritto un libro di poesie e uno di racconti per Rizzoli, Sette ragazze imperdonabili. Ora è arrivata questa proposta da parte di Luca Doninelli, alla quale ho aderito con entusiasmo. C’è anche da dire che sono sempre stata contraria alla ghettizzazione delle arti: ognuno vive il proprio mondo – nel mio caso quello della musica – ma il rischio è che, dopo un po’, diventi autoreferenziale. Invece, credo sia bellissimo quando i linguaggi, le arti e anche le persone che appartengono a mondi differenti si incontrano e fanno accadere cose inaspettate».

Hai già scritto le musiche per il testo di Dario Fo e Franca Rame, Tutta casa, letto e chiesa. Dio non è un contabile è però il tuo primo esordio nella drammaturgia. Che approccio hai avuto alla scrittura teatrale?

«Si tratta innanzitutto di un monologo, recitato da un’unica attrice in scena. L’ho scritto senza pormi troppe domande, con l’incoscienza di chi si cimenta in qualcosa per la prima volta. La sfida era proprio questa: provare a fare qualcosa di nuovo senza impormi troppi paletti. Il punto di partenza è stato scegliere un brano della Bibbia che mi stava particolarmente a cuore, che mi riguardasse e che potesse fungere da pretesto per una narrazione più poetica. Ci tenevo a non renderlo né troppo accademico né troppo pesante o filosofico. Volevo mantenere una certa leggerezza, perché spesso, quando ci si approccia al Vangelo o alla Bibbia, si rischia di formalizzarsi e di diventare eccessivamente seriosi. Il discorso è ovviamente molto profondo, ma ho voluto preservare un po’ di freschezza, con un sottile filo d’ironia. Allo stesso tempo, desideravo che nel testo trovasse spazio anche la poesia, perché questa parabola ne è intrisa. C’è molta bellezza, al di là di qualsiasi tipo di ragionamento o di insegnamento. Quindi, poesia e ironia sono state le due coordinate che mi hanno guidata nella scrittura».

Come mai, tra tutto il vasto corpus biblico, hai scelto proprio questa parabola?

«Non ho avuto troppi dubbi nel momento della scelta, perché è una parabola che mi ha sempre colpita profondamente. Solitamente, le letture che ti riguardano e ti destabilizzano sono quelle che contengono un valore per te: significa che c’è qualcosa che hai bisogno di affrontare, raccontare, capire. In questo caso, il testo mette in discussione il concetto di giustizia e di bontà, cose che diamo spesso per scontate. Ad esempio, quando il padrone paga gli operai della vigna, lo fa in misura uguale per tutti, a prescindere dal tempo che hanno lavorato. A un primo sguardo, questa cosa mi ha stupita: non la reputavo giusta. Il padrone sembra comportarsi come gli pare, quasi cercando di imbrogliare. Ma se si sospende il giudizio e si legge con maggiore attenzione, ci si chiede se forse non ci sia un altro scopo, un disegno che non comprendiamo immediatamente ma che esiste. Per me era importante provare a capire perché un’azione che inizialmente mi sembrava ingiusta, in realtà, potesse avere un senso diverso, forse persino più alto. Non più quello della contabilità, dove due più due fa quattro e se lavori un’ora guadagni un denaro, mentre se ne lavori dieci ne guadagni dieci. Si tratta di emanciparsi da quella che chiamo la dittatura della contabilità, per cui ogni bilancio deve sempre tornare e, se non lo fa, si grida all’ingiustizia. È un approccio arido, in cui tutto viene contabilizzato: il tempo, l’energia, perfino l’anima. È un concetto che mi ha sempre affascinata».

Nella stesura del monologo sei riuscita a trovare una tua risposta personale?

«Ne sono uscita appagata ma anche sfidata: arrivare a una propria conclusione non significa necessariamente essere in grado di aderirvi. Chi vedrà lo spettacolo uscirà probabilmente con una domanda in più piuttosto che con una risposta definitiva. Credo che sia un sentire comune quello per cui tutto, nella nostra società, diventa merce. Io lo percepisco molto. Per questo, scoprire che una scrittura antichissima – al di là della fede o delle credenze personali – pone ancora oggi un interrogativo così potente mi affascina. Se un testo continua a metterci in difficoltà dopo secoli, significa che tocca questioni fondamentali, che restano valide e attuali».





Dal sito Famiglia Cristiana

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