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La farfalla impazzita, la storia vera di Giulia Spizzichino che contribuì alla consegna di Priebke


Quel soprannome, farfalla impazzita, che poi ha dato il titolo alla sua autobiografia, e alla fiction che ne è stata tratta, è una metafora usata da un amico di Giulia Spizzichino, a indicare una vita che non ha trovato pace.

La sua storia personale, che l’ha portata a farsi testimone chiave nell’estradizione di Erik Priebke e nel processo che lo ha poi condannato all’ergastolo per concorso in omicidio plurimo, è la prova che le vittime dei crimini non sono mai soltanto le loro vittime dirette, quelli che muoiono o ne restano feriti, ma anche quelli che subiscono a vita le conseguenze di quelle ferite e di quelle morti.
 


UNA grande famiglia spezzata

Giulia Spizzichino, primogenita di cinque fratelli, era soltanto una ragazza, cresciuta a Testaccio in una grande famiglia in cui ci si riuniva tutti per le feste ebraiche e cristiana, quando alle Fosse Ardeatine sono morti sette suoi parenti (nonno, zii, cugini) e, quando, altri 18 membri della sua famiglia sono stati deportati e mai tornati: il più piccolo dei cugini deportati si chiamava Giovanni, aveva appena due settimane di vita, portato via con i genitori nella casa in cui era nato perché agli ebrei era vietato andare in clinica a partorire.

Li ha scanditi quei nomi, Giulia Spizzichino, nella deposizione al Processo Priebke il 22 maggio del 1996, uno a uno con voce ferma. Quando al termine della testimonianza, tuttora ascoltabile dall’archivio di Radioradicale, il presidente della Corte le ha chiesto se avesse considerazioni da fare, rifletté lucida, che non sarebbe stata in grado di dire se al posto dell’imputato di quel processo che in gioventù aveva avuto l’ordine di fucilare per rappresaglia quei civili, inermi e neppure collegati all’attentato di Via Rasella, facendoli inginocchiare sui corpi dei loro parenti uccisi davanti ai loro occhi prima di loro, avrebbe avuto la forza di dare la vita per disobbedire all’ordine, ma disse che era certa, che, dopo, mai avrebbe potuto chiamare “amico” colui che avesse urtato tanto la sua coscienza impartendo quell’ordine, men che meno inviargli degli auguri. Frasi che smontavano la tesi difensiva, secondo cui Priebke sarebbe stato indotto ad agire dalla necessità di sottostare a un ordine.

 

NEgli occhi di una bambina

  

Giulia Spizzichino, come tanti in Italia, aveva fatto i conti per la prima volta con le proprie origini ebraiche, a 11 anni, al momento dell’applicazione delle leggi razziste, a scuola. «Ero brava a scuola», ha raccontato nelle sue numerose testimonianze pubbliche, «non capivo perché mi avesse convocata il preside. Ma non mi spiegò nulla, solo mi disse che il mattino dopo sarei dovuta andare a scuola accompagnata da un genitore».

A casa capitò quello che era ordinaria amministrazione in quegli anni nella relazione tra scuola, casa e famiglia. I genitori chiesero per prima cosa: “Che cosa hai combinato?” E non credettero subito al «niente» della ragazzina, iscritta da poco al primo anno dell’avviamento commerciale, corso di studi intrapreso dopo le elementari. Il mattino dopo il preside spiegò alla madre che era arrivata una lettera del partito fascista e che gli alunni di origine ebraica non avrebbero più potuto, di lì in poi, frequentare accanto agli ariani. Il racconto di Giulia Spizzichino è stato spesso un racconto di immagini vivide, rimaste congelate nella memoria, e di non detti o di parole lapidarie come quando la madre al suono delle campane che indicava che la guerra era finita, stoppò la sua gioia ingenua con una frase lapidaria: «Non tornerà nessuno, sono stati tutti uccisi».

Giulia ripeteva di non avere mai saputo se sapesse davvero o se lo avesse solo intuito. Raccontò al processo che a lungo aveva portato rancore a quella certezza rassegnata della madre che aveva spento tutte le sue illusioni e, con esse la possibilità di tornare a gioire e a sperare, faticava, diceva a perdonarle, di aver messo subito alla fine della guerra sette stellette sul suo abito nero, senza provare a sperare in un errore, quasi a prendere atto di quelle morti relegate fin lì a un trafiletto di giornale senza nomi.


In Argentina SULLE orme dell’SS Priebke

Proprio l’immagine della madre era diventata un simbolo, quando Kombat film nel 1991 mostrò in Tv le immagini drammatiche delle donne in lutto che uscivano dal riconoscimento dei loro familiari uccisi alle Forsse ardeatine, al ritrovamento dei corpi. Un cugino aveva chiamato Giulia segnalandole quell’immagine, spiegando di avervi riconosciuto la madre di lei con una donna svenuta tra le braccia, spiegava che c’era un numero in sovrimpressione a disposizione di chi riconoscesse le persone delle immagini affinché si mettesse in contatto per riconnettere i fili della storia. Giulia Spizzichino chiamò, accolse l’invito della Rai senza sapere bene che cosa sarebbe accaduto e si ritrovò in diretta a raccontare, ancora non sapeva che sarebbe diventata non solo un simbolo ma una testimone preziosa.

Poco dopo un giornalista dell’emittente americana Abc, Sam Donaldson, che aveva riconosciuto Priebke in Argentina a San Carlos de Bariloche si mise in contatto con Giulia Spizzichino per favorire l’estradizione del criminale nazista. La procedura, aveva spiegato, era intralciata dal fatto che il ministero della Giustizia italiano, guidato allora dal ministro Alfredo Biondi, l’aveva chiesta per crimini di guerra, soggetti a prescrizione a differenza dei crimini contro l’umanità. Quando le domandarono se sarebbe stata disposta ad andare in Argentina a sostenere la causa sui media accompagnata da un avvocato accettò. Il primo tentativo di estradizione fallì, ma la seconda richiesta, sostenuta dalle testimonianze di Giulia sui media argentini, andò a buon fine. Era il 1995.

Il processo

  

Erik Priebke fu processato davanti al Tribunale militare di Roma tra il 1996 e il 1997, il primo processo si concluse con un proscioglimento per intervenuta prescrizione, per il reato di concorso in omicidio plurimo. La sentenza fu annullata con rinvio dalla Corte di cassazione e nel 1997 Priebke subì un nuovo processo di primo grado, sempre davanti al Tribunale militare di Roma, in diversa composizione, conclusosi con la condanna a 15 anni di reclusione, di cui 10 condonati.

La sentenza fu poi riformata in ergastolo in appello. L’ergastolo ha trovato conferma in Cassazione nella sentenza pronunciata il 16 novembre 1998 dalla I sezione della Corte di Cassazione. Nel 1999 Priebke andò ai domiciliari, visse 100 anni e alla sua scomparsa fu sepolto in luogo anonimo per scongiurare il rischio che la sua tomba diventasse oggetto di pellegrinaggi di nostalgici.

Analizzando su Questione giustizia la sentenza definitiva della Cassazione il giudice Giovanni Zaccaro spiega: «La Suprema Corte (…) ha escluso che gli imputati Priebke e Hass potessero godere della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere (ossia dell’obbedienza all’ordine inoltrato in via gerarchica). In primo luogo, la Corte ha evidenziato che lo sterminio delle Fosse Ardeatine appare, per i cinici sistemi di selezione delle vittime, per la sproporzione fra il numero di vittime e soldati tedeschi morti, per le efferate modalità di esecuzione dell’eccidio e successivo occultamento dei cadaveri, macroscopicamente criminoso e dunque tale da legittimare la disobbedienza gerarchica. Quindi, rovesciando l’impostazione della sentenza Kappler, ha rinvenuto negli imputati chiari indizi di adesione psichica e morale all’ordine, evidenziando come essi avessero avuti solidi convincimenti ideologici razziali e totale disinteresse per le sorti delle vittime. Le interviste rese, in questi ultimi anni, da Priebke sembrano dare conferma, ex post, di quanto coscientemente e deliberatamente costui abbia condiviso l’ordine dei suoi superiori».

Giulia Spizzichino, in un’intervista rilasciata a Tv 2000, nel 2013 spiegò: «La condanna all’ergastolo di Priebke non mi ha portato serenità, a me bastava che la gente sapesse» che cosa nascondeva il passato dell’uomo che si celava in Argentina dietro la vita anonima di un innocuo vecchietto. 

Insignita del Cavalierato dell’ordine al merito della Repubblica nel dicembre 2015 dal presidente Giorgio Napolitano, è scomparsa a 90 anni, il 13 dicembre del 2016.





Dal sito Famiglia Cristiana

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