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Intervista al pittore Giorgio Griffa in occasione della mostra a Palazzo Ducale


«Aspetti un attimo che trovo dove sedermi poi le racconto tutto, non solo della mostra: ho già fatto i quadri». E spiega che ha mal di schiena «ma compatibilmente con gli anni sto benissimo».  
Giorgio Griffa nasce a Torino possiamo ormai dire 89 anni fa (il 29 marzo è il suo compleanno). E fin da bambino dipinge. Probabilmente non sa neanche lui con precisione da quando: è accaduto, doveva accadere, per quel fluire dinamico, continuo, inarrestabile della materia che è in ogni sua opera.
Lo intervistiamo per la monografica a lui dedicata a Genova, a Palazzo Ducale, fino al 13 luglio. Titolo: Dipingere l’invisibile. «Le arti aprono la porta all’invisibile, continuano a entrare nell’ignoto dai tempi di Orfeo. E l’ignoto è quella parte di realtà a cui non possiamo dare identità. Sono religioso, ma preferisco che l’invisibile resti tale: è dentro di noi e non lo troviamo neanche andando dallo psicanalista», spiega. «Non mi permetto di dare a quest’ altra dimensione una figura di Dio a mia immagine e somiglianza».
Griffa è l’esempio perfetto di come l’età sia un limite per il corpo ma non per la mente, che continua a viaggiare, come le linee e i colori che propone, a cavallo fra più mondi: la fisica più recente («nel nostro universo quantistico la vita è dappertutto»), la filosofia del divenire, la letteratura. E solo poi la pittura.
C’è stato anche il tempo per diventare avvocato («a mezzo servizio») nello studio del padre, ma la giurisprudenza non lo ha mai legato a sé, e oltre sé come la pittura, anche se lì ha imparato «a mettere una regola su ogni lavoro che faccio, per poi magari trasgredirla. In un artista convivono i contrari. Invece come pittore avevo imparato a mettere in quelle pratiche un po’ più di fantasia».
In mostra, nelle undici sale, grandi tele, lavori su carta e installazioni, tra cui un omaggio a Eugenio Montale nel centenario della raccolta poetica Ossi di seppia. Per celebrare un protagonista di nicchia dell’arte contemporanea e maestro dell’astratto (anche se a lui le etichette stanno strette), in collaborazione con la Fondazione Giorgio Griffa e a cura di Ilaria Bonacossa, direttrice di Palazzo Ducale, e Sébastien Delot, profondo conoscitore del suo stile personale ridotto all’ essenziale: tela, segni primari che sono realtà e insieme sua rappresentazione e colori puri. La leggerezza dei suoi lavori è la leggerezza calviniana delle Lezioni americane, è quella dell’uccello, non della piuma, di Paul Valery «perché la piuma è schiava del vento, l’uccello invece lo sfrutta, la sua è la scelta di volare, che poi è la gravità che si fa etereo di Pegaso», riflette. 




Leggerezza e ricerca del non finito attribuiscono alla sua arte una dimensione altra, fuori dal tempo e vicina al pensiero zen, ma c’è anche la bellezza del Tao, della forza che scorre perennemente attraverso l’energia che muove la materia dell’universo, dei Veda e di quel “continuous becoming” che fu anche il titolo di una sua mostra e che ci lascia in un continuo stato di sospensione. Le sue pennellate, frutto di un’apparente ripetizione, si rinnovano a ogni gesto del pittore, come ogni atto della vita è sempre nuovo e irripetibile. «Caduto il perfetto universo meccanico di Newton, Matisse, lascia il sistema prospettico e rappresenta lo spazio occupandolo ritmicamente. Nel mio lavoro le sequenze di segni occupano lo spazio e il tempo, un segno dopo l’altro, una sequenza dopo l’altra», spiega. «Sono segni ripetitivi, impronte del pollice, del pennello, della spatola che richiamano il ritmo della conoscenza, della semina, del raccolto, della musica, della poesia. C’è una sequenza ritmica che va sulla tela: è un po’ come camminare».  

Qual è il compito dell’arte oggi? «Il mio è sempre stato quello del vivere. Non ho mai visto l’individuale contrapposto al collettivo. Veniamo da una tradizione in cui l’artista in qualche modo domina Dio, è un super uomo che dipinge. Il principio di dominazione è arrivato a livelli altissimi con Dante e nel nostro Rinascimento, nella pittura, con Piero della Francesca. L’artista, però, afferma sé stesso. Con il secolo passato questo principio inizia a vacillare perché i mezzi di dominazione sono diventati troppo potenti e ormai sono mezzi di distruzione di massa, basti guardare quello che accade con Putin e Trump. Le arti hanno abbandonato questo sistema di dominazione della materia e sono passate a un colloquio con essa. C’è un’intelligenza straordinaria del mondo, che solo negli ultimi decenni abbiamo scoperto, che si estende fino alle particelle minime, è diffusa dappertutto. Penso che l’ aspetto analitico non sia una teoria ma uno strumento di passaggio dalla dominazione della materia all’interazione con la sua intelligenza».
Da artista dilettante ad allievo, dal ‘60 al ‘63, di Filippo Scroppo, pittore astratto e docente all’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, collaboratore di Felice Casorati e membro del Movimento Arte Concreta (MAC). Tuttavia solo a metà degli anni ’60 nei suoi quadri figurativi iniziano a comparire elementi astratti che lo porteranno a riflessioni sullo statuto della pittura, sugli strumenti del dipingere e sulla posizione dell’artista e nel ‘67-68 al ciclo dei Segni primari. Associato all’ Arte Povera, alla Pittura Analitica o al Minimalismo, il suo percorso artistico rimane per lo più solitario e non inquadrabile in una corrente specifica. Quando la critica lo ha inserito nella linea analitica della pittura italiana, una sorta di reazione della fine degli anni ’60 all’arte concettuale di Joseph Kosuth, ha ribadito di essere un pittore e niente altro. «I Poveristi hanno spostato l’attenzione sull’intelligenza della materia. C’è un po’ di tutto nella mia arte: è una mescolanza, come è avvenuto sempre nella storia dell’umanità. Le scatole spesso le fanno i critici non i pittori, i pittori dipingono. Io non ho mai fatto una scelta per l’astrattezza, come Kandinsky. La polemica astratto-figurativo in cui sono cresciuto, nata dall’articolo di Togliatti del ’48, non l’ho mai accettata. Dopo la Biennale del ’64, quella della Pop Art, nel mio lavoro le figure hanno cominciato a staccarsi dalla pittura, sono diventate un di più e le ho dovute abbandonare. Avevo bisogno di scendere dal piedistallo dell’artista, di segni anonimi che appartengono alla mano di chiunque, non della figura, simbolo dell’artista sommo e della tecnica dell’accademia».
Di certo, non si è mai fatto ingabbiare dalla forma. «Lascio sempre qualcosa di non finito perché la vita nel frattempo è passata avanti, l’impermanenza fa parte di noi, del nostro corpo, delle nostre emozioni, dei nostri pensieri, delle nostre relazioni. Eraclito sosteneva che non possiamo bagnarci due volte nello stesso fiume. Facciamo i conti col tempo e con lo spazio perché sono le coordinate in cui viviamo, ma lasciamo almeno aperta la porta alla consapevolezza che forse c’è qualcosa fuori del tempo e dello spazio, un divenire che non riusciamo a spiegare razi





Dal sito Famiglia Cristiana

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