«Nazareth è ancora deserta. I pellegrini, a causa della guerra, non ci sono. Il costo della vita è aumentato perché i conflitti costano e a pagare è sempre la povera gente. È un periodo certamente difficile».
Padre Rafic Nahra da tre anni è vescovo ausiliare del Patriarcato latino di Gerusalemme e vive a Nazareth, la capitale araba di Israele – il 70 per cento degli abitanti sono arabi musulmani e il 30 per cento cristiani – dove si trova la Basilica dell’Annunciazione. Lo incontro a Milano, nella sede del PIME (Pontificio istituto missioni estere), dove è stato invitato per portare la sua testimonianza sulla Terra Santa per l’inizio della Quaresima.
Padre Nahra è nato in Egitto nel 1959 da una famiglia libanese, è emigrato ventenne a Parigi, dove ha lavorato come ingegnere prima di entrare in Seminario. Ha proseguito gli studi teologici a Roma e il 27 giugno 1992 è stato ordinato sacerdote nella capitale francese. Un soggiorno di studio a Gerusalemme lo ha portato a legarsi con la Terra Santa dove si è trasferito e ha ricoperto diversi incarichi curando in maniera particolare il rapporto con la comunità ebraica. Parla italiano, arabo, francese ed ebraico.
Eccellenza, come state vivendo il Giubileo a Nazareth?
«L’idea biblica dell’Anno Santo è che Dio ti dà la possibilità di aprire una nuova pagina. È così nell’Antico Testamento. Alle famiglie che hanno perso la terra gli è data una nuova possibilità di recuperarla anche se non hanno il denaro sufficiente. Gli schiavi sono liberati. Quello che ha fatto Gesù in tutta la sua vita è dare nuove possibilità. Il senso del Giubileo è questo: parlare alla gente di questa nuova pagina possibile, a livello familiare, personale, politico. Vorremmo tanto vivere una nuova pagine anche nel Paese ma purtroppo per il momento non si vede chiaramente come sarà il futuro».
Quale nuova pagina si dovrebbe aprire per il Medio Oriente?
«Bisogna ricostruire le relazioni tra israeliani e palestinesi ma anche tra ebrei e arabi all’interno di Israele. Il 7 ottobre con l’attacco di Hamas e la guerra a Gaza hanno distrutto ogni fiducia degli uni per gli altri. Senza fiducia non si può vivere insieme. Oggi purtroppo né gli ebrei né gli arabi ci credono molto ma non c’è altra possibilità. Bisogna lavorare su questo sperando nell’aiuto di Dio che tocchi i cuori». Dopo mesi di conflitto, a Gaza c’è una fragile tregua mentre si sono intensificati gli attacchi parte dell’esercito israeliano e dei coloni in Cisgiordania dove oltre 40 mila persone sono state costrette a fuggire da abitazioni e campi profughi per mettersi in salvo. «Se non si risolve il problema alla radice tra qualche mese o anno saremo di nuovo come prima. Bisogna arrivare a una soluzione in cui Israele ha la sicurezza e i palestinesi una forma di autodeterminazione, di dignità, perché veramente si sentono colpiti nella loro dignità, quello che sta succedendo è molto umiliante per loro. Bisogna arrivare a trovare questa soluzione ma non so in che modo, oggi mi sembra più lontana che mai. La tregua, pur importante, non è la pace. Se scoppia un altro conflitto sarà molto più tremendo dell’ultima. Questo è il mio timore».
Lei si occupa del rapporto tra ebrei e cristiani. In Cisgiordania si moltiplicano gli atti vandalici verso i cristiani.
«La cosa che mi preoccupa è che tutti sono diventati più estremisti, anche nel mondo ebraico. Il governo attuale d’Israele è un governo di estrema destra e questa è la direzione, la guerra attuale ha fatto sì che anche quelli più moderati oggi dicano: “Ci siamo sbagliati, pensavamo di pover vivere in pace ma ci siamo resi conti che i palestinesi ci odiano e basta”. Israele sta andando sempre più a destra e in Palestina c’è una grandissima rabbia. Dopo la distruzione di Gaza, in Cisgiordania adesso i coloni sono diventati più aggressivi a causa di atti di resistenza violenta che hanno subito in passato. I palestinesi, dal canto loro, resistono con atti violenti in una spirale sempre più intricata. La violenza chiama violenza e, purtroppo, il governo di Israele non sembra reagire per porre un argine ma purtroppo lascia fare. C’è un estremismo che ha contagiato molti, se non tutti. Dopo lo shock del 7 ottobre, alcuni, da una parte e dell’altra, adesso parlano di convivenza pacifica ma sono pochissimi».
Come giudica i negoziati in corso?
«Il mondo arabo vuole certamente porre fine alla guerra. Israele farà sicuramente alcune proposte, non so quali, per arrivare a una soluzione stabile. Una cosa è certa: se Israele fa la pace con tutto il mondo arabo, ma non lo fa con i palestinesi, non avrà la pace e il Medio Oriente sarà sempre una polveriera pronta a esplodere. Molti leader israeliani affermano che faranno la pace con i paesi del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, e che tutto andrà bene. Non è così. Purtroppo il 7 ottobre l’ha dimostrato».
L’intervento di Trump sta aiutando questo processo?
«La sua proposta mi sembra irrealizzabile. Che senso ha, come lui sostiene, ricostruire Gaza e rendere la Striscia un territorio bello e attrattivo anche dal punto di vista turistico se rimangono lo stesso odio e violenza di prima che faranno scoppiare di nuovo la guerra? La creatività è positiva ma deve essere anche realistica. Penso che Trump abbia ragione nel dire che servono soluzioni nuove ma la sua proposta non mi sembra fattibile».
È preoccupato per l’ondata di antisemitismo che c’è in Europa e negli Stati Uniti?
«Moltissimo. Però penso che come non si può e non si debba identificare Hamas, che è un’organizzazione terroristica, con il popolo palestinese, lo stesso vale per gli ebrei. Il fatto che in Medio Oriente ci sia un conflitto tra israeliani e palestinesi non vuol dire che bisogna attaccare gli ebrei nel mondo. È un popolo meraviglioso che va rispettato. L’antisemitismo esploso nelle università e nelle piazze e la collera che lo accompagna si basa su una cattiva conoscenza di quello che succede e spesso è un atteggiamento frutto di buoni sentimenti disinformati. Ma i buoni sentimenti non hanno mai risolto nessun problema, quindi bisogna capire davvero cosa sta succedendo, conoscere le persone, aiutare a costruire e non aiutare a distruggere che di distruzione in Medio Oriente ce n’è già troppa».
Lei è nato in Egitto da famiglia libanese, poi ha vissuto in Francia, è stato ordinato sacerdote a Parigi e poi a un certo punto si è innamorato della Terra Santa dove si è trasferito definitivamente. Come nasce questo legame?
«Sono andato per la prima volta a Gerusalemme nel 1993 ma con grande scetticismo. Volevo visitare la Terra Santa ma non volevo vedere tanto gli abitanti (sorride, ndr). Perché non li conoscevo e l’ignoranza non solo non favorisce buone relazioni ma non predispone neanche all’incontro. Quando sono tornato a di Parigi ho subito iniziato a occuparmi di dialogo interreligioso e approfondire l’ebraismo. Nel 2004 ho iniziato a studiare all’Università Ebraica di Gerusalemme dove ho conseguito un Master in pensiero ebraico e poi, nel 2016, un dottorato in letteratura giudeo-araba. Vivere in Terra Santa mi ha spinto a chiedermi sul perché di tanto odio. Capisco che c’è un problema politico, ma l’odio non va bene, non permette di risolvere niente nella vita, l’odio distrugge e basta. Questa domanda mi ha spinto a occuparmi di dialogo, ad approfondire la religione e la cultura ebraiche. Quando c’è una conoscenza reciproca si può convivere e provare ad andare d’accordo. Il problema in Terra Santa è che palestinesi e israeliani è che non si conoscono affatto. Per i primi, l’unica realtà che conoscono di Israele è il checkpoint dove sono maltrattati e quindi vedono gli israeliani come mostri. Molti israeliani conoscono dei palestinesi solo gli attentati di Hamas. Ma ci sono palestinesi meravigliosi che non hanno niente a fare con il terrorismo».
Dopo tanti anni in Medio Oriente cosa le piace e cosa invece fa fatica ad accettare?
«La ricchezza e la difficoltà di questa regione è che sono il luogo di nascita delle tre principali religioni monoteiste. Questo è il bello ma al contempo anche il difficile perché le religioni sono una materia infiammabile, se così posso dire, posso essere sempre adoperate in maniera strumentale come una spada per giustificare la violenza. È una terra amata, odiata, contesa anche per questo. Nel conflitto israelo-palestinese ci sono poi stratificazioni storiche che pesano e rendono tutto molto complicato».
Qual è la lezione più importante che ha imparato in Terra Santa?
«Che la morale non è bianco o nero ma una realtà molto complessa, una scala di grigi. Quando abitavo a Gerusalemme ospitavo spesso alcuni seminaristi francesi e li incoraggiavo a venire ma non per insegnargli l’ebraico ma per scoprire, toccare con mano questo aspetto che la morale non è bianco o nero, che non c’è chi ha ragione e basta e chi ha torto e basta. Per alcune persone questo è chiarissimo, per me no. C’è una sofferenza da parte di tutti che va accompagnata non giudicata».
A novembre scorso papa Francesco, in un libro, aveva chiesto di indagare se quello che è accaduto a Gaza avesse «le caratteristiche di un genocidio». Lei che ne pensa?
«Non sono un esperto di diritto internazionale ma credo che non sia una parola adatta perché il genocidio è il progetto di sterminio di un popolo. È vero che in Israele c’è una parte della popolazione che vorrebbe vedere scomparire i palestinesi, è vero che molti politici israeliani hanno utilizzato espressioni molto violente affermando di voler “sgomberare” la Striscia in una sorta di deportazione ma tra queste cose, pur gravissime, e un genocidio, cioè lo Stato che organizza a tavolino un programma di sterminio c’è una differenza notevole. Né dobbiamo dimenticare che la guerra a Gaza è nata dall’attacco di Hamas del 7 ottobre che ha causato una carneficina».
Com’è Nazareth senza pellegrini?
«Triste e vuota come Gerusalemme, Betlemme e gli altri luoghi santi. Per i cristiani il turismo è una fonte di sostentamento e l’arrivo dei pellegrini è un aiuto morale, perché quando si vede la gente arrivare genera un sentimento di fiducia. È vero che i cristiani si sentono soli, un po’ isolati ma noi, anche come Chiesa, non vogliamo che entrino in una mentalità di minoranza. Questo è un rischio. Spero che i pellegrini ritornino presto».
Come state vivendo la malattia di papa Francesco?
«Preghiamo per la sua salute, perché il Signore lo fortifichi e gli dia forza perché ha una missione molto pesante e complessa. Anche i credenti di altre religioni hanno pregato e pregano per lui perché ha compreso i suoi sforzi per il dialogo e la pace».