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Il Vangelo secondo Antonio: se il prete è affetto da Alzheimer


Sono oltre tre milioni le persone che in Italia si occupano, in famiglia, di un parente affetto da demenza degenerativa, la cui forma principale è la malattia di Alzheimer. Scoperta nel 1906, quasi 120 anni fa, non è ancora stata trovata una cura effettiva per rallentarne il decorso. Questa drammatica consapevolezza pesa principalmente sui familiari, costretti a prendersi cura di un parente destinato a perdere sé stesso nell’inesorabile declino mentale. È un processo doloroso che prevede l’accettazione di cambiamenti radicali nell’assetto familiare, oltre che l’ansia, la paura, l’impotenza verso il senso di perdita a cui non si può porre rimedio.

Dario De Luca, regista, attore e drammaturgo calabrese, ha voluto dedicare uno spettacolo a tutti coloro che ogni giorno si prendono cura dei propri cari. A dare voce ai vari “stadi” di accettazione della malattia sono una perpetua burbera e un giovane diacono di un piccolo paese di provincia, dove l’amato parroco di paese, Don Antonio, comincia a dare i primi segni di cedimento. La malattia non stravolge soltanto il rapporto con la famiglia, ma anche quello con Dio, dando vita a un nuovo e singolare approccio alla spiritualità.

Vincitore del Premio per la migliore regia al Premio per il Teatro e la Drammaturgia Tragos e segnalato al Premio Fersen alla drammaturgia 2017, Il Vangelo secondo Antonio verrà presentato al Teatro Oscar dal 30 gennaio al 2 febbraio. Abbiamo intervistato il regista De Luca per farci raccontare la genesi del testo drammaturgico.

Da dove nasce l’idea di uno spettacolo sull’Alzheimer?

«Lo spettacolo nasce nove anni fa, nel 2016 e da allora ha avuto una grande fortuna. Ha vinto un po’ di premi, sia per la drammaturgia, sia per la regia. Tutto è nato da un mio avvicinamento al mondo dei malati di Alzheimer. Sono stato chiamato a leggere dei racconti all’interno di un convegno medico organizzato da una dottoressa, una psicoterapeuta geriatrica che lavora con i malatti di Alzheimer e che aveva scritto dei piccoli racconti sui suoi pazienti. Queste storie mi hanno molto colpito: conoscevo a malapena il morbo di Alzheimer, ne sapevo pochissimo e questi racconti mi hanno aperto un mondo, un mondo di delicatezza, di dolcezza, di poesia e di dolore. E allora ho voluto approfondire, affinando i miei studi anche attraverso la visita a numerosi centri specializzati. Questo mi ha permesso di scrivere un copione, qualcosa che potesse raccontare questa malattia».

Perché ha scelto proprio Don Antonio?

«Non volevo fare uno spettacolo dove si trattasse solo della malattia, volevo che ci fossero delle riflessioni altre. E allora ho immaginato un personaggio che potesse aprire altre considerazioni, che riflettesse la complessità della situazione. Inizialmente ho pensato a un politico che perde la memoria, un presidente del consiglio o il presidente della Repubblica. Però non mi bastava. Così mi è venuta in mente la figura di un parroco, un prete. Tra i racconti che avevo letto a quel convegno, c’era la storia di uno parroco di provincia che si era accorto della sua malattia durante la messa della domenica di Pasqua, quando al posto di dare le ostie ai suoi fedeli ha iniziato a mangiarsele per contro proprio. Mi sembrava un’immagine pazzesca, teatralmente fortissima. E da lì mi sono chiesto: ma se succede a un prete, cosa accade alla sua fede? Cosa avviene in un uomo che ha dei dogmi ben precisi e ben radicati nella sua anima? Il mistero che lo tiene legato al Cristo, che lo tiene legato anche, per esempio, alla comunione. Che cortocircuito si crea? Si consideri la confessione, il luogo in cui il sacerdote diventa scrigno di ricordi, di memoria, di segreti. Avevo bisogno di capire un po’ più l’intimità di questa malattia. Cosa avviene, le sacche di memoria che si perdono, o le sacche di memoria che si mantengono. Le persone che accudiscono i malati di Alzheimer, vengono chiamati mamma dai malati. Pure se è il figlio, pure se è la figlia, pure se è il fratello o la sorella. Istintivamente il malato di Alzheimer chiama la persona che lo accudisce mamma. Allora ci devono essere delle sacche d’amore che rimangono nella nostra testa, per cui nonostante non riconosciamo la persona che abbiamo a fianco, la chiamiamo mamma».

Come si manifesta la perdita nella fede?

«Quest’uomo, don Antonio, non riconosce più il Cristo, eppure nonostante questo riesce a creare con lui un rapporto suo, personale, molto intimo, È un rapporto d’amore, per questo lo spettacolo si chiama Il Vangelo secondo Antonio. Un quinto Vangelo scritto da un parroco di Calabria. Don Antonio è un parroco di provincia, però è il vicario del vescovo, per cui noi lo vediamo all’inizio come una persona molto coinvolta in termini umanitari, sociali, è uno che per conto della curia si occupa degli sbarchi dei migranti sulle coste della Calabria, che gestisce per conto del vescovo gli immobili sequestrati alla Ndrangheta. Dopodiché lentamente vediamo la perdita dei suoi punti di riferimento. Al suo fianco nello spettacolo ci sono la sua perpetua, che poi è sua sorella, da sempre rimasta nubile, e questo giovane diacono, Fiore, che è una figura molto dolce, molto delicata, che gli sta vicino e che probabilmente trova anche delle modalità per parlare con lui, perché magari proprio la sua giovane età lo rende più leggero, per cui accetta delle cose folli che Don Antonio fa e a dispetto della sorella, che si ostina, si arrabbia, perché non può credere a quello che sta succedendo. Ho provato a costruire una storia che potesse interrogare qualunque spettatore. Perché comunque è una riflessione sul dolore, sulla misericordia umana che va al di là del fatto se uno è malato di Alzheimer o meno. C’è una matrice prettamente cattolica, ma il ragionamento è sul senso religioso che ogni essere umano ha».

Qual è la stata la reazione del pubblico a questo spettacolo finora?

«Io sono sempre molto impressionato da come il pubblico rimanga coinvolto, sia chi ha avuto esperienze con malati di Alzheimer e sia chi invece no. Certo. Devo dire che è capitato anche che qualcuno rimanesse infastidito. Non perché non si ritrovassero, ma perché evidentemente c’era qualche nervo scoperto. Alcune di queste persone hanno visto lo spettacolo una seconda volta e mi sono venuti a parlare dopo. Mi hanno raccontato di essersi indignate, arrabbiate in un primo momento e poi successivamente commosse. Questo perché evidentemente allora erano troppo vicine al dolore della propria personale esperienza. È infatti uno spettacolo che parla di Alzheimer, ma anche di molto altro. Vediamo Dina, la sorella del parroco, che percorre un po’ tutti quelli che sono i sentimenti del caregiver. C’è l’imbarazzo, un tendere a non credere a quello che si vede. Poi c’è rabbia, addirittura una dolenza. Probabilmente chi l’ha vissuta in prima persona, ci si ritrova e si innervosisce. L’abbiamo fatto anche ai festival dell’Alzheimer Fest. Lì per esempio avevo paura, perché naturalmente erano tutte famiglie che avevano avuto esperienza con l’Alzheimer. È un momento in cui ci si ritrova insieme ai malati, alle famiglie, in un contesto ludico, più leggero. Anche lì ho avuto una bellissima risposta. Mi ha fatto notare che in qualche modo avevo centrato il mio obiettivo. Naturalmente ci sono i momenti in cui la malattia si svela nel suo lato più buffo, per cui ci sono anche dei momenti carini, esilaranti. Poi naturalmente puoi ben immaginare il gioco che si può creare tra fede e malattia. Ci sono degli affondi profondissimi, però ci sono anche dei momenti abbastanza comici».





Dal sito Famiglia Cristiana

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