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Il Sinodo, più vicino all’esperienza ecclesiale di quanto appare

Cari amici lettori, con la pubblicazione dell’Instrumentum laboris lo scorso 9 luglio il Sinodo sulla sinodalità che sta occupando la Chiesa universale dal 2021 compie un altro passo avanti, in vista dell’ultima tappa. Per molti, “non addetti” ai lavori, il percorso sinodale e le sue discussioni possono forse risultare un po’ astratte, lontane dalla “vita reale” delle nostre comunità.

Ma è proprio così? Forse occorre fare un passo indietro e ri­flettere sul titolo del sinodo, che pone al centro un modo di essere Chiesa: il tema è la sinodalità, declinata come comunione, partecipazione e missione. La missione della Chiesa (l’annuncio del Vangelo) è la prospettiva di fondo, ma il punto di partenza è dato dalle prime due parole: comunione e partecipazione. Se ci pensiamo bene, esse indicano questioni tutt’altro che lontane e astratte anche dalla nostra esperienza quotidiana di Chiesa: perché, alla fin fine, spesso il prete è un “uomo solo al comando”? Perché nella Chiesa i laici, le donne… non hanno “voce” nei processi decisionali? Come si fa a vivere e a comporre la tensione delle diversità nella Chiesa, che c’è fin dentro una piccola comunità locale? Basta semplicemente ignorarsi a vicenda, come a volte si fa anche tra gruppi in parrocchia per evitare lo scontro?

Sto ovviamente semplificando, ma l’aver voluto un sinodo sulla sinodalità mi pare risponda a questo: prima ancora di scendere nelle questioni concrete che “dividono” i credenti, dobbiamo avere chiaro un modo di “essere Chiesa” e qualcosa che sia un “metodo ecclesiale”. Non a caso, come sottolineato dal segretario del Sinodo, il cardinale Mario Grech, è stato innanzitutto un «sinodo dell’ascolto»: di ciò che vuole Dio, che passa anche dall’ascolto degli altri. Ma se tra “diversi” non ci si parla e non si compie la fatica di uscire da se stessi per assumere le prospettive dell’altro, non ci può essere cammino comune, sinodalità e quindi unità. Ecco allora anche un metodo spirituale per far parlare tra loro i diversi, la “conversazione nello Spirito”, che ha aiutato il Sinodo nelle sue varie fasi a far emergere le differenze in maniera non conflittuale. È un metodo che non elimina il con­flitto nascondendolo, ma lo assume in un processo più ampio.

Nella presentazione è stato sottolineato come questo “metodo” stia portando anche a livello di base i primi risultati di un modo diverso di “fare Chiesa”. Il Sinodo porterà questo processo su un piano necessariamente più “alto”. Il frutto felice del Sinodo ‑ finora, mi sembra, sta nel tentare di attrezzare la Chiesa universale davanti alla complessità di cui è fatta la vita, anche quella ecclesiale, coinvolgendo tutto il popolo di Dio e non solo la “gerarchia” o i teologi, sia nell’individuare i problemi, sia nei processi decisionali. Coinvolgimento nel processo vuol dire sentirsi parte di una comunità viva, responsabili in prima persona. In vista della missione di sempre della Chiesa. Parlando del discernimento nel processo sinodale, padre Giacomo Costa ha affermato: «Qui si apre un tema essenziale per una Chiesa sinodale: come sviluppare modalità partecipate di decisione nel rispetto dei diversi ruoli, nella circolarità del dialogo (tra tutti i membri del Popolo di Dio) che non svaluta la consultazione, non la contrappone alla deliberazione né la trasforma in rivendicazione». Stiamo forse toccando con mano quanto si legge in Evangelii gaudium: è più importante avviare processi che conquistare spazi.





Dal sito Famiglia Cristiana

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