Non sono solo canzoni: la musica, colonna sonora diffusa e avvolgente del nostro tempo e fino all’estate, ci ricorderà chi siamo e come siamo. Il Festival di Sanremo è un rito collettivo, a cui partecipi anche se non vuoi, secondo il vecchio ed efficace adagio morettiano: «Mi si nota di più se…». Se faccio il FantaSanremo e vinco, se organizzo serate karaoke con gli amici, se lo guardo diffidente e critico, se non lo guardo per niente. Comunque tutti ne parlano e fingere di non partecipare al rito è inutile.
Una volta erano le feste comandate o dei santi patroni. Oggi è Sanremo o qualche finale calcistica. D’altra parte, con l’orrore martellante delle guerre, le follie autocratiche nei due emisferi, le lacerazioni politiche in casa, i portafogli messi maluccio, un po’ di svago ci vuole.
Ecco appunto, è svago? Scenografie luccicanti, disinvoltura dei conduttori e occhio ai look, qualche balletto, qualche battuta comica, qualche dose di buonismo sparsa qua e là, per non vergognarsi di distrarci troppo.
Ma i cantanti? Fanno ascolto non perché cantano, ma per le loro storie di vita, per i dissidi e le intemerate sui social, per le gare di insulti reciproci. La maggior parte sa cantare e ci mancherebbe, nel Paese del bel canto. I testi delle canzoni, spesso a firma degli stessi pochi autori, sono stati sapientemente esaminati dall’Accademia della Crusca, che ha valutato originalità, correttezza, eleganza di parole e sintassi. Un esame severo e con voti appena sufficienti, ma si dirà che importa, l’Accademia salga in cattedra a casa sua, non sul palco dell’Ariston.
Ma leggere i testi senza fini o filtri di lettura squaderna un’evidenza che contrasta con il fine, divertire e svagare. Sono testi tristi, a volte disperati. Gli sprazzi di allegria, se si esclude il ritmo che prende, sono demenziali, vuoti di significato. Si gioisce perché si può ballare ma quel che viene detto è insignificante. Dove spiccano le parole, e sono i big più impegnati e più in voga, c’è da fare gli scongiuri. Quanti vetri rotti, spezzati, come i cuori, muri di cemento e smog che soffocano senza alternative (Shablo), la paura di essere soli (Giorgia) e quanto all’amore, tragedie. Se ti innamori muori (Noemi), se non mi ami muoio giovane (Lauro), per tacere di chi disprezza l’equivalenza amore-sesso e ci si chiede chi gliel’ha mai fatta fare (Irama). La verità si manda giù controvoglia (Elodie) con cocktail di farmaci per non uccidersi, perdere i sogni (Fedez).
L’amore più vero, non gridato, malato, killer, l’ho trovato in tre testi diversi ma capaci di far pensare (ancora si può, perfino a Sanremo). Un padre che guarda sua figlia e le confessa con tenerezza la verità, anche se buia, senza cadere nella paura di farle del male, perché questo è voler bene (Brunori). La poesia di Cristicchi per una vecchia mamma tornata bambina, perché anche questo è amore. E l’invocazione sincera e realista di Corsi, che spiazza le sue e nostre maschere. Volevo essere un duro, ma «quanto è duro il mondo per quelli che hanno poco amore intorno». Niente di più vero, solo di questo abbiamo bisogno.
(Immagine in alto: Lucio Corsi, foto ANSA)