di Nicoletta Bortolotti
Le parole mentono. Tradiscono. Occultano. Le immagini, al contrario, inchiodano alla verità dei corpi. La verità rossa delle madri di Gaza, comparsa ieri, 19 marzo 2025, giorno della Festa del papà, su la Repubblica in prima pagina.
Quelle madri non piangono i figli uccisi nell’atroce “Ramadan di sangue”, come ha chiamato Netanyahu l’ennesimo massacro. Piangono i lenzuoli bianchi che ne ricoprono il vuoto, lo fasciano in beffarde sembianze di neonato. Nella culla del non più. Perché è questo che resta quando niente rimane. “Appresi che nulla resta di ciò che amiamo a parte i fazzoletti” scrive la poetessa araba Widad Nabi. E la poetessa palestinese Rafeef Ziadah denunciò, già diversi anni prima, la scelta israeliana di utilizzare annunciatrici per trasmettere in televisione le notizie sulla morte dei bambini uccisi dalla guerra, perché una voce di donna placa l’angoscia dei telespettatori.
Le parole scappano vergognose, si rifugiano dietro la gonna di una madre, quando ogni dire sul suo dolore è una falsificazione. Ma il silenzio è anche peggio, una resa all’abitudine. Quasi che quelle mamme siano in fondo abituate, siano quelle che il tuo stesso mare lo vedono “dalla riva opposta” come scrive Niccolò Fabi, che il tuo stesso parto lo attraversano da un sangue opposto, un sangue abituato a perdere, a morire prima di morire. Quasi che per loro sia diverso, che il loro dolore sia minore in un corpo minore.
Io, madre, ho potuto scegliere l’ospedale dove far nascere i miei figli, dove mettere in scena il prodigio del venire al mondo, ho potuto monitorare il loro mistero crescere nell’ecografia, ascoltandone il battito che pompa spaventosamente la vita. Di quelle madri sulla riva opposta del mio stesso mare non conosco i nomi. L’immagine li tace. E come si chiamano i figli? Se non hanno un nome non esistono? Forse si chiamano Hadeel, come nella straziante poesia di Ziadah, che recita: “Hadeel ha nove anni / no, scusate, Hadeel aveva nove anni / proprio stamattina Hadeel aveva nove anni / (…) ma chi / chi lo dirà alla madre di Hadeel / intenta a cuocere pane e za’atar / che le colombe non voleranno più su Gaza”.
E da dove vengono i bambini? A Gaza non si sa, forse non vengono da nessuna parte, l’unica cosa che sappiamo è dove vanno. A Gaza si dice che i bambini, se muoiono “muoiono per finta, poi ritornano”. O magari, invece, alcuni hanno la fortuna di essere inseriti nel programma “Food for Gaza” del governo italiano, che crea un ponte fra l’Ospedale Regina Margherita di Torino e i piccoli pazienti oncologici della Striscia. Anche il Bambino Gesù di Roma e molti altri ospedali italiani sono solidali nel prestare immediata assistenza. Alcune associazioni umanitarie non solo cercano di offrire ai piccoli un riparo dal freddo, dalla fame, dalla mancanza di acqua potabile, dalle malattie, dai proiettili e dalle bombe, ma tentano di trovare loro un luogo sicuro dove possano vedere i cartoni animati.
Sì, perché se muore un bambino, non muore solo la madre di un’amputazione che la dissanguerà per sempre, muore l’immaginazione dell’intero mondo. Muore quell’“immaginare di oggi che aiuta ad abitare la realtà di domani”, di cui parlava Gianni Rodari. Per le madri di Gaza è difficile se non impossibile accedere ai controlli di routine in gravidanza perché gli ospedali possono fornire solo le cure della sopravvivenza. Se devono sottoporsi a un taglio cesareo tornano poi subito a “casa” in un angolo del tendone di plastica. Alcune assumono farmaci per indurre spontaneamente il travaglio, in modo che il bambino non possa nascere mentre stanno fuggendo. Ma certi bambini hanno una strana abitudine. Quella di nascere dove non nasce niente.
Certe madri, dalla riva opposta del mare, hanno un’abitudine ancora più strana. Quella di sognare di nuovo un grembo, anche se il loro grembo, come la notte a Gaza, è riempito di ferro.