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Il Papa: «Io malato tra i malati, condivido con voi la fragilità»

Oltre ventimila persone da 90 Paesi del mondo applaudono quando monsignor Rino Fisichella, al momento dell’omelia ricorda che «a pochi metri da noi papa Francesco, dalla sua stanza a Santa Marta, ci  è particolarmente vicino e sta partecipando – come tanti malati, tante persone deboli -, sta partecipando a questa santa eucaristia attraverso la televisione». Il pro-prefetto  del Dicastero per la nuova evangelizzazione, si dice «particolarmente contento e onorato di offrire la mia voce per leggere l’omelia che lui ha preparato per questa occasione». Il Vangelo parla dell’adultera che gli scribi vorrebbero lapidare.

«Qui c’è una persona, una donna, la cui vita è distrutta», scrive il Papa, «da una condanna morale. È una peccatrice, e perciò lontana dalla legge e condannata all’ostracismo e alla morte. Anche per lei sembra non ci sia più speranza. Ma Dio non l’abbandona. Anzi, proprio quando già i suoi aguzzini stringono le pietre nelle mani, proprio lì, Gesù entra nella sua vita, la difende e la sottrae alla loro violenza, dandole la possibilità di cominciare un’esistenza nuova: “Va’” – le dice – “sei libera”, “sei salva”». Il Pontefice sottolinea che «non c’è esilio, né violenza, né peccato, né alcun’altra realtà della vita che possa impedirgli di stare alla nostra porta e di bussare, pronto ad entrare non appena glielo permettiamo. Anzi, specialmente quando le prove si fanno più dure, la sua grazia e il suo amore ci stringono ancora più forte per risollevarci».

Parole che, dice lo stesso Francesco, arrivano «mentre celebriamo il Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità, e certamente la malattia è una delle prove più difficili e dure della vita, in cui tocchiamo con mano quanto siamo fragili. Essa può arrivare a farci sentire come il popolo in esilio, o come la donna del Vangelo: privi di speranza per il futuro. Ma non è così. Anche in questi momenti, Dio non ci lascia soli e, se ci abbandoniamo a Lui, proprio là dove le nostre forze vengono meno, possiamo sperimentare la consolazione della sua presenza». A Lui, aggiunge, «possiamo dire e affidare il nostro dolore, sicuri di trovare compassione, vicinanza e tenerezza. Ma non solo. Nel suo amore fiducioso, infatti, Egli ci coinvolge perché possiamo diventare a nostra volta, gli uni per gli altri, “angeli”, messaggeri della sua presenza, al punto che spesso, sia per chi soffre sia per chi assiste, il letto di un malato si può trasformare in un “luogo santo” di salvezza e di redenzione».

E rivolgendosi ai «cari medici, infermieri e membri del personale sanitario» ricorda loro che «mentre vi prendete cura dei vostri pazienti, specialmente dei più fragili, il Signore vi offre l’opportunità di rinnovare continuamente la vostra vita, nutrendola di gratitudine, di misericordia, di speranza. Vi chiama a illuminarla con l’umile consapevolezza che nulla è scontato e che tutto è dono di Dio; ad alimentarla con quell’umanità che si sperimenta quando, lasciate cadere le apparenze, resta ciò che conta: i piccoli e grandi gesti dell’amore. Permettete che la presenza dei malati entri come un dono nella vostra esistenza, per guarire il vostro cuore, purificandolo da tutto ciò che non è carità e riscaldandolo con il fuoco ardente e dolce della compassione».

Poi rincuora i malati sottolineando quanto, «in questo momento della mia vita condivido molto: l’esperienza dell’infermità, di sentirci deboli, di dipendere dagli altri in tante cose, di aver bisogno di sostegno. Non è sempre facile, però è una scuola in cui impariamo ogni giorno ad amare e a lasciarci amare, senza pretendere e senza respingere, senza rimpiangere e senza disperare, grati a Dio e ai fratelli per il bene che riceviamo, abbandonati e fiduciosi per quello che ancora deve venire. La camera dell’ospedale e il letto dell’infermità possono essere luoghi in cui sentire la voce del Signore che dice anche a noi: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. E così rinnovare e rafforzare la fede». Prende a prestito le parole di Benedetto XVI, «che ci ha dato una bellissima testimonianza di serenità nel tempo della sua malattia» per dire che «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza». E che «una società che non riesce ad accettare i sofferenti […] è una società crudele e disumana». Il Pontefice conclude richiamando tutti ad «affrontare insieme la sofferenza» perché questo «ci rende più umani». «Condividere il dolore è una tappa importante di ogni cammino di santità» E dunque «non releghiamo chi è fragile lontano dalla nostra vita, come purtroppo oggi a volte fa un certo tipo di mentalità, non ostracizziamo il dolore dai nostri ambienti. Facciamone piuttosto un’occasione per crescere insieme, per coltivare la speranza grazie all’amore che per primo Dio ha riversato nei nostri cuori e che, al di là di tutto, è ciò che rimane per sempre».





Dal sito Famiglia Cristiana

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