Nella Parrocchia di San Gregorio VII una comunità di volontari e fedeli si adopera per accogliere e sostenere famiglie che hanno i loro figli in cura all’Ospedale Bambino Gesù. “Ogni giorno i volontari sono qui se abbiamo bisogno di qualcosa. La speranza della guarigione sta sempre nel nostro cuore, ogni giorno, ogni minuto”, racconta la madre di un bambino malato di leucemia.
Isabella H. de Carvalho – Città del Vaticano
Lo zerbino riporta la scritta Home, perché in fondo “Il Gelsomino” è questo: una casa per coloro che sono lontani da casa. Il primo piano della Parrocchia di San Gregorio VII, in una zona di mezzo tra la Basilica di San Pietro e l’Ospedale Bambino Gesù, ospita un appartamento di 250 mq nelle cui stanze vengono accolte per tutto l’anno famiglie da ogni parte del mondo venute a Roma per far curare i loro figli al nosocomio pediatrico. “Il Gelsomino” è il nome, come la via, a pochi passi dal Vaticano, in cui sorge la parrocchia.
Le pareti all’ingresso di questo alloggio sono adornate con cartellini verdi a forma di foglia. Su di essi sono scritti i nomi che rappresentano la comunità parrocchiale, tra volontari e benefattori che sostengono l’abitazione. Nella predominanza del verde, alcune foglie si distinguono per il loro colore bianco. Lì sono segnati i nomi dei 39 bambini che, dal marzo 2018, sono stati ospitati a “Il Gelsomino”. Alcuni di questi piccoli, insieme alle loro famiglie, parteciperanno domenica 6 aprile, accompagnati dai volontari alla Messa in Piazza San Pietro, in occasione del Giubileo degli Ammalati e del mondo della Sanità.
Il più possibile “una casa”
“La cosa che colpisce quando si entra al Gelsomino è l’odore del cibo che hanno cucinato le mamme”, osserva sorridendo Adelaide, una delle volontarie. Attende i media vaticani all’ingresso dell’appartamento e conduce subito nella grande cucina, poi nel salotto, sul terrazzo e nelle quattro stanze, piccoline ma ognuna con un bagno privato e tutte pronte ad accogliere nuclei familiari di massimo tre persone. L’età dei ragazzi può variare dai 3 ai 17 anni e in media rimangono circa sei mesi. “Abbiamo voluto che fosse il più possibile una casa, veramente una fonte di tranquillità per chi è qui”, spiega Marina, responsabile delle iniziative di carità di San Gregorio VII. Da quando questi spazi sono stati inaugurati, la comunità parrocchiale e in particolare i volontari che si occupano dell’iniziativa cercano di accogliere con speranza le famiglie, offrendo sostegno e un senso di normalità in un momento della vita che è tutto fuorché normale.
Stefan e la mamma, da più di un anno a Roma per curare la sua leucemia
Da un corridoio spunta il visino di Stefan, incuriosito dagli ospiti. Ha quasi 6 anni e da un anno e mezzo si è trasferito a Roma dalla Romania con la madre Lanaila. È in cura al Bambino Gesù per combattere la leucemia. “Se tutto va bene, tra un mese torniamo a casa, perché ha praticamente finito il trattamento”, spiega la mamma di 37 anni. Gli occhi le diventano lucidi quando racconta del “troppo” sostegno che ha ricevuto in questo tempo al Gelsomino. “Ogni giorno i volontari sono qui se abbiamo bisogno di qualcosa: una parola, un abbraccio… È difficile andare a casa e lasciare tutto questo, perché siamo diventati come una famiglia”, spiega Lanaila, guardando Stefan intanto salito in braccio ad Adelaide. “All’inizio io non parlavo nulla di italiano. È difficile venire in un altro Paese, dove non si capisce niente della lingua, neanche all’ospedale… Qui però sono molto bravi, ti danno un sostegno e quel calore umano che senti in casa”.
Rispondendo ad un’esigenza del territorio
L’iniziativa “Il Gelsomino” è nata per rispondere a un’esigenza del territorio. La parrocchia si trova, infatti, a cinque minuti di macchina dall’ospedale pediatrico, in collegamento con varie strutture della Capitale italiana che ospitano giovani pazienti e le loro famiglie. I frati francescani che guidano San Gregorio VII hanno messo a disposizione i locali, appositamente ristrutturati. Oggi le persone accolte sono parte integrante della vita parrocchiale. “Il Gelsomino” accoglie famiglie di tutte le religioni e nazionalità, ci sono infatti persone dal Venezuela, dall’Albania, dall’Etiopia o anche dal Vietnam.
La speranza delle famiglie
In questo anno giubilare incentrato sul tema della speranza, alcuni pellegrini ospitati hanno avuto modo di visitare la struttura e ascoltare le testimonianze delle famiglie, “respirando la vita di questa casa”, spiega Marina. “Lei è la madre della casa”, esclama Lanaila. I genitori condividono con i pellegrini sia la speranza nella guarigione dei figli, sia la “consolazione che trovano nell’accoglienza, e nel sapersi coccolati” anche vivendo una situazione dolorosa.
Oltre che con i volontari, il legame speciale si crea anche tra le stesse famiglie che vivono insieme e condividono le difficoltà. “Devono prendere le misure l’uno con l’altro, e magari parlano lingue diverse, ma poco dopo si crea una sintonia. In quel momento quella diventa la loro famiglia e si aiutano fra loro. Parlano la lingua dell’amore e anche della sofferenza”, osserva Marina. “La speranza della guarigione del figlio di un’altra è la speranza della guarigione del proprio. La paura quando le cose vanno male per una diventa la paura per l’altra. È un legame molto stretto e intimo”.
“La speranza era presente in tutto questo tempo che siamo stati qua – fa eco Lanaila – non solo per Stefan, ma per tutti i bimbi malati che stanno in questa casa, che hanno avuto momenti buoni e anche difficili. Ma la speranza sta sempre nel nostro cuore, ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo”.
Cercare di donare una vita normale alle famiglie
Sono 25 i volontari che si organizzano in turni di mattina, pomeriggio e sera per essere presenti negli alloggi, in cui hanno un piccolo ufficio, in caso di qualsiasi necessità. “Ci accostiamo in punta di piedi – spiega Marina – noi siamo presenti per aiutare concretamente, ma anche semplicemente per ascoltare o sostenere nei momenti di difficoltà. Sempre secondo i desideri dei genitori stessi”. Adelaide riporta l’esempio di un “nonno” della parrocchia che aiutava le famiglie comprando i detersivi per le pulizie o accompagnandole con la macchina in ospedale. O anche dei giovani volontari, coetanei di un ragazzo malato, che lo invitavano a feste e momenti di gioco anche fuori dalla parrocchia. O ancora di un bambino vietnamita che ha avuto la possibilità di andare a scuola mentre stava a Roma e frequentava una classe con i figli di alcuni volontari.
“Questo è lo spirito del Gelsomino: di cercare di trasmettere un senso di vita normale, di amicizia, che non sia legata alla malattia in sé, ma a una vita di comunità”, racconta Marina. È Stefan infatti a indicare con entusiasmo le diverse parti di quella che da oltre un anno è casa sua, in un misto tra italiano, inglese e rumeno. Mostra i suoi due pesciolini rossi nell’acquario, il pallone fuori nel terrazzo, i giochi da tavolo nel corridoio, le decorazioni nella sua stanza.
Il sostegno della preghiera nei momenti difficili
Oltre che ai volontari direttamente coinvolti, il sostegno a queste persone arriva anche dalla comunità parrocchiale estesa, a cominciare dalla preghiera. “Tutti quelli che frequentano San Gregorio VII sanno di questa casa. Ci sono fedeli che mi chiedono specificatamente chi è più in difficoltà per poter pregare per loro”, sottolinea Adelaide. Questo senso di solidarietà tramite la preghiera va anche oltre le differenze religiose. Lanaila, ad esempio, è ortodossa e nella stanza che condivide con Stefan ha appeso delle icone che le ricordano casa. Un ramoscello di ulivo è fissato dietro una delle immagini della Madonna. “Io sono ortodossa, qui è cattolico, ma Dio sta in tutte le cose”, racconta, sottolineando anche la vicinanza del parroco e della comunità dei frati, che “vengono e parlano con noi anche quando non riusciamo ad andare in chiesa”.
Quando si perde uno dei ragazzi
Questo sostegno della comunità è stato particolarmente sentito nei momenti in cui alcuni dei bambini accolti sono venuti a mancare a causa delle malattie. “Abbiamo perso dei ragazzi ed è una tragedia ovviamente per la famiglia, ma anche per noi, perché la relazione che faticosamente tiriamo su poi viene interrotta così. È un grande dolore”, racconta Marina. Tutti i volontari, spiega, sono preparati a vivere una eventualità del genere: “Tutti si interessano, partecipano e si addolorano. Quando arrivano questi momenti ci preoccupiamo di stare accanto alle famiglie, anche ai ragazzi stessi, che a volte sono consapevoli di essere prossimi alla fine. Noi siamo lì per non lasciare soli i genitori in questo momento. Ovviamente se possibile e se loro vogliono”.