La compagine ceciliana ha offerto una serata dedicata al compositore francese nel centenario della morte e ai settant’anni di Matteo D’Amico con una commissione dedicata ad alcuni dei grandi autori della letteratura transalpina
Carla Di Lena – Città del Vaticano
Il concerto dedicato a Fauré che attendevamo nel centenario (nel 2024 l’anniversario dalla morte) è arrivato qualche mese dopo, il 5 marzo, nella stagione di musica da Camera dell’Accademia di Santa Cecilia. Protagonista il Coro con un programma che al celebre Requiem op 48, preceduto dal Cantique de Jean Racine op.11, affiancava Les nuages, una nuova commissione a Matteo D’Amico in occasione dei suoi 70 anni. La direzione era affidata al maestro del Coro Andrea Secchi con un sostegno strumentale che variava da un pezzo all’altro. L’accostamento di Fauré con la nuova composizione di D’Amico trovava il suo trait d’union nella scelta di testi dell’Ottocento francese, di Hugo, Baudelaire, Mallarmé.
Sulle parole di Victor Hugo
“Ciò che lega questi testi poetici è il tema comune di uno sguardo dell’uomo verso il mistero affascinante del cielo, dove si proiettano i più diversi stati d’animo e le inquietudini dell’anima” ha scritto D’Amico nelle note di sala. Le nuage, La Nuvola, il primo pezzo che dà il titolo al trittico, è su una poesia di Victor Hugo e descrive la mutevolezza del cielo, rispecchiamento della vita degli uomini. Segue Élévation, tratto da I fiori del male di Charles Baudelaire, tutto giocato su una sfera sovrannaturale, e infine Renouveau da Stephane Mallarmé, un’amara riflessione sulla disarmonia tra la natura in fiore e lo stato d’animo inquieto dell’uomo.
Musicalmente si alternano varie situazioni e stati d’animo, con suggestivi interventi del violoncello (solista Arianna Di Martino) che aiutano a raccordare le voci con la tessitura polifonica del pianoforte, arricchito quest’ultimo dalla disposizione a quattro mani (Mirco Roverelli e Monaldo Braconi). Una scrittura narrativa e comunicativa, nonché esperta, quella di D’Amico, che dichiaratamente si discosta da ricerche sul suono o sulla serialità e fa tesoro del Novecento storico per modellarsi con la parola, qui pronunciata da una massa corale molto consistente. Caloroso il riscontro del pubblico.
Purezza di fraseggio
Il trittico si incastonava, dicevamo, tra i due brani di Faurè. Il Cantique de Jean Racine è un pezzo meraviglioso composto a soli venti anni quando il compositore frequentava a Parigi l’École Niedermayer, istituzione meno blasonata del Conservatoire Supérieur ma che ebbe un’influenza determinante per la formazione del musicista. L’ École, infatti, nell’intento di formare maestri di cappella per i servizi religiosi fondava la formazione degli allievi sul contrappunto e sulla musica antica, aspetti che avrebbero lasciato una traccia indelebile nel linguaggio tutto personale del compositore. La straordinaria combinazione tra densità di scrittura polifonica, i richiami alla modalità e al canto gregoriano, la raffinata e moderna sensibilità armonica e la purezza di fraseggio è ciò che rende inconfondibile il linguaggio di Fauré e che ne dimostra l’originalità a partire dalle prime prove giovanili. Il coro era sostenuto dal solo pianoforte di Mirco Roverelli nel Cantique e poi nel Requiem da un insieme strumentale ridotto ma in linea con le diverse versioni approntate nel tempo dal compositore, comprendendo gli archi senza violini, oltre a corni, timpani, organo e arpa.
La visione serena che emana da questo Requiem, volutamente non teatrale né drammatico, ma umano nel senso più completo della parola, veniva restituita al pubblico lasciando il desiderio di ascoltare più frequentemente queste e altre pagine del grande compositore francese. Applausi calorosi per i solisti- il soprano Nathalie Peña-Comas e il baritono Mikhail Timoshenko-, per l’ensemble strumentale, il coro e per il direttore Andrea Secchi.