In occasione degli 80 anni dalla Liberazione avevamo lanciato un appello ai lettori di Famiglia cristiana affinché ci segnalassero storie di Resistenza in cui erano stati protagonisti loro familiari o conoscenti. Sono arrivate decine di segnalazioni, molte di queste però inerenti agli Imi, gli internati militari italiani, che seppur protagonisti di una forma di Resistenza (a cui abbiamo dedicato numerosi articoli, anche di recente), essendosi rifiutati di entrare nelle file dell’esercito nazista dopol’8 settembre e per questo motivo rinchiusi i campi di concentramento in condizioni disumane, in questo frangente intendevamo concentraci sulla Resistenza nel senso più classico del termine, quella che è poi sfociata appunto con la Liberazione. In questo articolo riportiamo le storie che ci sono arrivate da nostri lettori, preziose, inedite, toccanti. A tutti voi il nostro più sentito grazie per l’affetto con cui ci seguite e per la vostra collaborazione. E per un approfondimento sulla Liberazione vi rimandiamo al dossier di 12 pagine sul numero di Fc in edicola.
Un salvataggio repentino
Anna Maria de Majo ci scrive da Treviso«Nel 1942 la mia famiglia viveva al piano terra di palazzina a due piani sul lungo Sile. L’amicizia con i padroni di casa che abitavano al secondo piano era rafforzata dalla frequentazione dei figlioli, due maschi ed una femmina per entrambe le famiglie. Una mattina ci fu una retata, gli uomini validi vennero arrestati e avviati verso la stazione. Le notizie che venivano angosciosamente passate erano che sarebbero stati avviati a campi di lavoro in Germania.
Gli uomini camminavano con pochi effetti personali, alcuni avevano una valigetta riempita in fretta e furia sotto gli sguardi preoccupati e ansiosi di qualche familiare accorso e controllati da alcuni soldati armati. Improvvisamente, con una rapidità che colse tutti di sorpresa, un ragazzetto si avvicinò a uno dei prigionieri, gli prese la valigia, lo tirò verso di sé, oltre il bordo della strada, nel fosso e poi via attraverso i campi. L’azione fu così rapida e imprevista che nessuno se ne accorse. Quell’uomo, che poi si rifugiò in montagna fino alla fine della guerra, era il nostro vicino di casa, quel ragazzo era mio fratello».

la ragazza che sfidava i tedeschi
Annamaria Cagnolari ricorda la zia Maddalena, staffetta partigiana
«Nella nostra famiglia vive con affetto, riconoscenza e fierezza il ricordo di zia Maddalena. Non ancora ventenne, dalle montagne di Reggio Emilia dov’era nata e cresciuta, si era trasferita per lavoro a Parma, durante la Seconda Guerra Mondiale. Zia Maddalena aveva un carattere vivace, forte e determinata. Quando si rese conto che anche lei poteva fare la sua parte per aiutare l’Italia a riconquistare la libertà, si offrì come collaboratrice all’esercito inglese e divenne staffetta partigiana. Con questo obiettivo si preparò studiando il tedesco in una scuola proprio a Parma. Naturalmente la conoscenza della lingua tedesca le permetteva di riferire i movimenti segreti dei nazi-fascisti. Proprio grazie alla conoscenza della lingua, riuscì a salvare suo fratello che, preso prigioniero insieme ad altri ragazzi, stava per essere fucilato. Non sappiamo bene cosa raccontò ai tedeschi ma il fatto è che riuscì a riportarlo a casa. Come staffetta partigiana doveva consegnare documenti, ordini, avvisi ai compagni spesso lontani. Si muoveva agilmente in bicicletta che per lei non era solo un mezzo di trasporto ma diventava un nascondiglio perfetto (la canna vuota della bici). Un giorno, insieme a un’amica chiese un passaggio a un camion tedesco. I soldati le fecero salire con gentilezza; sorridenti, apparentemente serene, le ragazze dialogarono con loro per tutto il viaggio. È facile indovinare come sarebbe finita se i tedeschi avessero scoperto che queste simpatiche ragazze avevano indosso importanti documenti rilasciati dal commando inglese per i partigiani. Certo a zia Maddalena non mancava l’astuzia e il coraggio, ma soprattutto credeva profondamente in quel che faceva. Ci raccontava di aver visto torturare alcuni partigiani ma, nonostante le nostre curiosità, non ha mai voluto rivelare le azioni crudeli dell’esercito tedesco. Quando i tedeschi scoprirono l’esistenza del suo gruppo partigiano, zia Maddalena riuscì a salvarsi appena in tempo, avvertita in anticipo da un amico».

Giovanni e il fratello Angelo
fuga dalla valtellina
Monica Maino ci ha inviato la testimonianza del padre Giovanni, di 92 anni.
«Sono l’ultimo di nove figli, e il 25 aprile 1945 avevo 12 anni. Avevo un fratello maggiore di 10 anni più di me, che era un partigiano. Aveva il compito di mantenere il collegamento tra i partigiani di città e quelli sui monti in Valtellina, che erano a Grosio sopra Tirano. Un giorno, mentre viaggiava su un treno, venne riconosciuto da un fascista contro il quale aveva giocato e vinto una partita di calcio. Al ritorno come all’andata andò a comprare il biglietto del treno ad Aosta. il venditore dei biglietti era un partigiano che gli disse: “Stanno cercando te!”. Mio fratello cambiò strada, si allontanò dal treno e non salì. Allora, tornato indietro entrò nel Santuario di Tirano e vi rimase fino alla chiusura, superò il confine ed poi entrò in Svizzera e lì passo la notte. Al mattino rientrò e si mise a camminare verso casa: si muoveva di notte e per non essere preso e rimaneva nascosto di giorno.Il viaggio fu lungo, faucoso, il cibo era poco. Ci mise quasi quindici giorni a tornare a casa».
IL COMANDANTE DELLA BRIGATA GARIBALDI MORTO A DACHAU
Chiara Bianchi, di Brescia, ha ricostruito la figura di un cugino della madre.
«Lo scorso Natale con mia madre quasi novantenne ho redatto l’albero genealogico della famiglia sul suo versante (è una famiglia con molti aspetti curiosi). Arrivati al ramo dei “cugini” di Como, è tornato fuori il ricordo di tal Mario Gazzaniga, che mia madre ricordava morto a Dachau. Secondo i suoi ricordi era farmacista, e secondo le narrazioni famigliari aveva aiutato tutti, sia fascisti che antifascisti che ebrei, quando avevano bisogno, e per questo lo avevano denunciato.Per curiosità, sono andata a cercarlo nei registri di Dachau, e nel gruppo di prigionieri non militari o ebrei, l’ho trovato. Mario è morto l’8 aprile 1945 e si presume sepolto sul Leitemberg, monte che accoglie i resti di quelli che hanno trovato nel momento della liberazione del campo. Per curiosità ho cercato altri documenti. E’ saltato fuori che era farmacista a Domaso (Como), nato il 19/09/1890 a Milano. Poiché, presumo, aveva fatto il militare durante la Prima Guerra, ed era non più giovane, quando si è unito ai partigiani è stato subito un comandante: e la Brigata non era una qualsiasi, ma la 52°Brigata Garibaldi. Il reparto era il distaccamento Rulù della Puecher, formazione Alpe di Vercana. Aveva aderito alla resistenza il 15/09/1943. nFu arrestato il 16/06/1944 a Domaso, inviato al Carcere di Como, poi a S. Vittore. Il 17/10/1944 fu trasferito al Campo di Bolzano, poi partito il 18/11/1944 arrivò a Mathausen il 21/11/1944 (matricola 110273). In seguito fu trasferito a Melk il 5/12/1944, poi subito ad Auschwiz. Da gennaio 1945 fu inviato a Dachau (matricola 137248) dove morì. Siamo rimasti colpiti e piuttosto fieri di questo “cugino”. Mia madre ricorda che aveva una moglie e figli, ma non siamo riusciti a trovare contatti. La farmacia di Domaso ormai da tempo non è più della famiglia Gazzaniga. I cugini, se vivi, sono probabilmente molto anziani e non hanno certo i social, insomma non sono riuscita a trovare contatti per farmi raccontare la vera storia di quest’uomo, la parte umana. In ogni caso vi scrivo, perché sotto a questi dati un po’ asettici io vedo un grande uomo, coraggioso. Nel cimitero di Sesto S. Giovanni, infine, c’è un monumento dedicato ai partigiani, e lui è nominato nelle lapidi commemorative».
Nome di battaglia “Carnera”
Franco Mengucci rievoca la figura di un ex partigiano amico di famiglia
«Sono vissuto dalle età di nove anni sino alla sua morte a fianco di un partigiano che era diventato di famiglia. Era uno scapolo impenitente e trascorreva con noi tutte le festività. passato tante festività assieme essendo e comunista convinto. Si chiamava Eolo Pierucci, era nato a Chiaravalle di Ancona nel 1909 e sin da ragazzo prese coscienza dello sfruttamento operaio e contadino. Aderì al P. C. I. ed iniziò a lottare per i diritti dei lavoratori. Eolo negli anni Trenta fu inserito dalla Regia Prefettura negli elenchi di attivista comunista e per questo costantemente sorvegliato e ricercato dalle camicie nere nelle spedizioni punitive. Lavorava alla Savoia Marchetti di Jesi come operaio. Eolo andava quotidianamente da Chiaravalle a Jesi e viceversa portando a volte anche stampe clandestine che divulgava in ditta. Ditta dove creò varie cellule comuniste di lotta contro il regime. Entrato nella Resistenza scelse come nome di battaglia Carnera perché, mi raccontava, il pugile aveva un fisico possente mentre lui era mingherlino e scattante. Così, ingannati dal nome, non avendo foto segnaletiche in tutte le località della zona i fascisti cercavano una persona robusta e massiccia. Lui piccolo con la bici spesso passava inosservato ai posti di blocco. Spesso i fascisti lo attendevano nei pressi di casa, ma c’era sempre qualcuno all’ imbocco della via che lo avvisava di non rientrare. Ricordo che in casa quando mia mamma urlava “Eoplo, fuggi che ci sono i fascisti”, lui si buttava dalla finestra del primo piano correndo per campi. Ciò perché sotto la finestra aveva accuratamente messo del fieno e paglia per attutire impatto col suolo. Aveva una bici (recuperata da ferrivecchi) con la quale si spostava per strade sterrate e secondarie ed a volte in mezzo a colture per distribuire il giornale L’Aurora e documenti segreti. Aveva una pistola che alla sua morte fu ritrovata nella sua soffitta ben oliata. La fecero in mille pezzi con un martello. Dopo la liberazione di Chiaravalle avvenuta il 20.07.2944 Eolo segui il C. I. L. e combattè per la liberazione di Alfonsine, che gli concesse la cittadinanza onoraria e lo invitò varie volte il 25 Aprile. Era fiero del fazzoletto ANPI che alla sua morte voleva fosse seppellito con lui ma lo prese un nipote che mai aveva vissuto con lui, come invece avevamo fatto i e i miei genitori.
Ha sempre abitato in Via Fratelli Cairoli n. 48 e quest’anno con l’ANPI intendiamo apporre una targa sul davanti di questo edificio per due motivi.
Il primo perché è stato la sede del primo nucleo partigiano del paese, il secondo perché ancora ha i buchi sui muri esterni derivanti da schegge del sanguinoso bombardamento del 17.01.1944. In questa data il paese in occasione della fiera di S. Antonio ebbe tra il 40 e 60 per cento di case lesionate e circa 200 vittime civili, con il locale ospedale centrato in pieno da bombe».

Don Giovanni Zoia con Felice Rosti, che è stato il primo sindaco di Gaggiano del dopoguerra,
il ponte minato di gaggiano
Paolo Migliavacca ha raccolto nel 1991 questo raccont o dallo stesso protagonista, don Giovanni Zoia ((Sulbiate 1911-Sulbiate 1993) a Grezzago dov’era stato parroco, .
«Le case di Gaggiano, pochi chilometri a sud ovest di Milano, sono divise da due ponti: uno per soli pedoni, l’altro aperto al traffico che dalla città porta al fiume Ticino. Negli anni della guerra contava meno di tremila abitanti, a cui dal novembre del 1944 si erano aggiunti i trecento di un reparto tedesco, il KIP 688 che si era installato nel cortile del Municipio. Gli ufficiali si eranoo accomodati in alcune abitazioni private: la villa del veterinario, l’appartamento del medico condotto, la casa del lattaio.Alla notizia dell’insurrezione i Tedeschi misero in acqua una barca che, in pieno giorno, andando da un ponte all’altro collacava le mine sui piloni centrali. Poi misero mine in altri punti (la scuola, la stazione ferroviaria) e fecero sapere che sarebbe saltato tutto in aria al primo tentativo di attacco alla loro truppa. La gente aveva paura e passava la notte nei campi, aspettandosi da un momento all’altro scoppi, fuoco e fiamme. Un mattino tre persone bussarono al portone del municipio: un prete, don Giovanni Zoia; un reduce dalla campagna di Russia, Felice Rosti; un orologiaio che da mesi nasconde nella propria bottega armi e volantini del movimento partigiano, Carlo Francia. Non rappresentavano nessuno. O meglio: rappresentavano tutti. Il comandante del reparto, capitano Otto Angstman, ribadiìle minacce e chiarì che si sarebbe arreso solo dietro a un ordine superiore. In ogni caso, lui e i suoi uomini non avrebbero mai consegnato le armi a dei civili. Il portone si richiuse alle spalle dei tre. Don Giovanni, coadiutore, 34 anni, inforcò la bicicletta e andò a Milano, all’Hotel Turismo con un biglietto scritto e firmato dal maggiore, il quale chiese al Comando da cui dipendeva l’autorizzazione ad arrendersi, mantenendo il possesso delle armi.
Anche la notte tra il 26 e il 27 aprile molta gente di Gaggiano la trascorse nei campi. La mattina dopo il portone del municipio vennee spalancato. Ne uscì un’automobile militare, scoperta. Di fianco all’autista sedevano il maggiore Ansgstman, che guardava davanti diritto e don Giovanni che invece guardava a destra e a manca: porte e finestre sbarrate: nessuno per strada, nel silenzio rimbombava il motore della vettura. Dietro, in piedi, c’era un soldato che reggeva con le braccia spalancate un lenzuolo bianco: la resa. Quando il sacerdote gli consegnò l’autorizzazione ad arrendersi, l’ufficiale si sfilò la pistola e gliela porse. Don Giovanni la rifiutò. L’auto percorse tutta la via in un paese immobile. La gente, finalmente, uscì in strada, spalancando tutto, gridando e ridendo».
Vivi solo grazie a don cARLO
Lucia Marsili ricorda la figura di un prete camaiorese, Don Carlo Andreini, parroco di Montebello
«Lo conobbi nelle vesti di professore di relgiione alla scuola media durante gli anni ‘50-‘60 : una persona disponibile e gentile con la passione per le api. Mi è stata offerta l’occasione di conoscerlo meglio quando, circa due anni fa, un altro prete, Don Andrea Ramacciotti, odierno parroco di Montebello, mi ha presentato una coppia di coniugi milanesi,(il dottor Ruy Milla di religione ebraic ed Elisabetta Caroti, professoressa cattolica) i quali desideravano rendere testimonianza ai nostri concittadini di quello che Don Carlo fece per la loro famiglia durante la persecuzione contro gli Ebrei. La testimonianza,redatta presso uno studio notarile di Milano, è stata rilasciata da Leda Pacifici, madre del dottor Ruy, nata nel 1932,la quale all’epoca dei fatti era poco più che una bambina. Così ha dichiarato,poco prima di morire,parlando in prima persona:
“Mio padre Arnoldo Pacifici,già prima della guerra, aveva costituito la prima fabbrica di lamette da barba in Italia, che aveva denominato “Tre Teste”,con sede legale a Milano e filiale a Roma dove abitavamo. Nell’estate del 1943 però,a causa dell’ incalzare della guerra,abbandonò con tutta la famiglia la casa di Roma trasferendosi in Toscana dove vivevano i nonni paterni, trovando rifugio alle pendici del Gabberi nel paese di Montebello,dove,via via arrivarono anche altri familiari scappati da Alessandria. Eravamo alloggiati nel centro del paese (tre locali più servizi),a poca distanza dalla chiesa ;nell’aia avevamo una stalla con una mucca, un maiale, qualche gallina e dei conigli. Arrivata a Montebello la mia famiglia si mise immediatamente in contatto con il giovane curato Don Carlo, al quale confessò l’appartenenza di tutti i suoi componenti alla religione ebraica. Lui ci consigliò subito di non parlarne con nessuno e, per non dare nell’occhio,ci invitò a mescolarci con la popolazione locale e soprattutto a farci vedere, la domenica mattina in chiesa per la Messa,così da fingerci cattolici.
Don Carlo veniva quotidianamente a casa nostra, portandoci il necessario alla sopravvivenza e,poiché né io né mia cugina potevamo frequentare la scuola,ci impartiva lui lezioni di latino.Mio padre Arnoldo, non potendo continuare la sua attività imprenditoriale ,si era però provvidenzialmente portato dietro quanti più strumenti di lavoro era stato possibile. Don Carlo nascondeva la produzione di lamette sotto l’altare (ritenendolo luogo sicuro) e anche i nostri beni erano nascosti in casa sua.Ricordo anche che si ingegnava segretamente a vendere le lamette passando il ricavato a mio padre. Quasi ogni giorno quel prete, rischiando grosso,portava ai miei notizie provenienti dal fronte ma, una mattina del ‘44,arrivò trafelato avvertendoci che la nostra presenza non era più sicura poiché l’esercito tedesco si stava avvicinando;Infatti, dopo pochi giorni vedemmo arrivare nell’aia un manipolo di soldati che s’impossessó della stalla, portando via la mucca e piantando le tende proprio lì nel cortile.Don Carlo ci aiutò a fuggire e ci riparammo in tre baracche di legno che mio padre aveva precedentemente costruito fra gli oliveti, a lle balze,in mezzo alla montagna, come rifugio sicuro nel caso che qualcuno avesse rivelato la nostra vera identità, anche se,per la verità ,il Don era riuscito a creare tra gli abitanti una rete di protezione abbastanza sicura. Un giorno d’agosto dello stesso anno udimmo in lontananza il rumore di spari e di bombe provenienti dalle montagne vicine e venimmo poi a sapere che a Sant’Anna di Stazzema,distante pochi km in linea d’aria,i tedeschi avevano compiuto un eccidio spaventoso.Venimmo inoltre a sapere anche che i tedeschi, presumibilmente in seguito ad una soffiata,erano arrivati a Montebello per arrestare Don Carlo, il quale però riuscì a fuggire dileguandosi nei boschi del Gabberi. La sottoscritta Leda Pacifici, ultima dei sopravvissuti della storia di cui sopra,rende questa testimonianza perché resti nella memoria comune che un giovane curato di campagna,mettendo a rischio la propria vita,salvò la sua famiglia e,grazie a quel salvataggio,la di lui opera può essere oggi raccontata. Voglio anche sottolineare che è in corso una richiesta,basata su questa testimonianza,volta al riconoscimento di Don Carlo Andreini come”Giusto fra le nazioni”.
Mi fa piacere ricordare comunque che la famiglia che ho avuto il piacere di conoscere, senza l’aiuto di Don Carlo, oggi non esisterebbe.Tutti gli altri parenti che si erano rifugiati nei dintorni infatti furono deportati ad Auschwitz e uccisi in modi diversi: fra questi la più giovane deportata italiana Luciana Pacifici (8 mesi) che fu arrestata a Viareggio in braccio alla giovane madre e caricata su un carro bestiame dove visse gli ultimi giorni della sua esistenza , stipata in pochi metri quadrati con altre cento persone senza cibo né acqua, in mezzo allo sterco,e lì morí di fame e di freddo.A lei il comune di Viareggio ha dedicato recentemente la passerella sul molo.
Vorrei infine sottolineare che finita la guerra Don Carlo partecipò attivamente allo sminamento delle nostre campagne insieme all’amico camaiorese Dino Rossi.
gli studenti incontrano la storia
Questa testimonianza ci arriva dagli alunni della Scuola Secondaria di primo Grado dell’Istituto Comprensivo Ottaviano Bottini di Piglio, che hanno incontrato Pietro Novelli, classe 1920, ex combattende e reduce della seconda guerra mondiale, che ha letto il suo diario “Ricordi di Guerra”.
«Pietro Novelli, partito da Piglio con il trenino per raggiungere il distretto militare di Frosinone nel 1940 per assolvere il servizio di leva, si è trovato, invece, coinvolto a combattere la seconda guerra mondiale (1940-1946) con tanta sofferenza e tristezza di aver lasciato la propria famiglia e la terra natia. Proprio per questo amore della terra natia la civica amministrazione ha fatto omaggio a Pietro Novelli di una targa ricordo dalle mani dell’Assessore Falamesca. Anche i ragazzi della III media hanno donato a Pietro una pergamena e un interessante dvd che ripercorre tutte le tappe e le località che Pietro Novelli ha visitato si fa per dire come combattente e poi anche da prigioniero.
Piglio ebbe il suo cumulo di rovine e di morti a seguito dei tre bombardamenti dell’8 Aprile, del 12 e del 27 Maggio 1944. Ci fu fame, miseria, angoscia, fuga verso i paesi vicini piè sicuri Vallepietra, Acuto, Filettino, Trevi verso le campagne, nei ricoveri. I soldati tedeschi erano anche cordiali ma la situazione, però, peggiorò tragicamente quando al vespero del 18 Marzo 1944, in località Pompiano, nel territorio di Piglio, fu ucciso un sottufficiale di una pattuglia militare tedesca. Alla notizia seguì subito l’ordine del coprifuoco, alcune capanne vennero incendiate e per rappresaglia, furono fermati ottanta cittadini, dieci dei quali dovevano morire perché era legge di guerra: per ogni soldato tedesco ucciso venivano sacrificati dieci italiani. Il numero delle vittime fu ridotto a cinque grazie al vescovo di Anagni Mons. Attilio Adinolfi, a don Filippo Passa e a padre Hiemer gesuita. La fucilazione avvenne il 6 Aprile 1944 in località Mole di Paliano. La rappresaglia non finì il 6 Aprile, poiché la mattina dell’8 Aprile, vigilia di Pasqua, mentre si svolgevano le rituali funzioni del Sabato Santo nella Collegiata Santa Maria Assunta, ci fu una incursione aerea tedesca e la Chiesa fu bombardata e persero la vita altre dieci persone di cui otto donne e due uomini. Arrivò poi un’altra tragica data. Erano le ore 18,15 del giorno 12 Maggio 1944 quando una formazione di dodici aerei anglo-americani effettuava un bombardamento distruggendo i due conventi di San Lorenzo e di San Giovanni che erano stati abbandonati dai tedeschi. Un altro bombardamento aereo avvenne a Piglio in località Insuglio il 27 Maggio dello stesso anno ad opera della 5^ Armata USA che causò la morte dei coniugi Lorenzo Cecili ed Erminia Sperati. Venne il 1945 e la speranza della liberazione diventò realtà. Anche Piglio fu libera.
Tanti erano gli orfani, tante le vedove, tante le salme, eppure si ricominciò a lavorare, a seminare i campi, a curare le vigne, a ricostruire, si ballava il saltarello nelle strade e nei vicoli al suono degli organetti in un’atmosfera popolare piena di calore, poiché la gente semplice come era non si poteva ancora immaginare quale fase di svolgimenti politici e sociali la Seconda Guerra Mondiale lasciava dietro di sé. Si votò con il Referendum il 2 Giugno del 1946 e come Capo provvisorio venne nominato l’illustre giurista napoletano Enrico De Nicola. Le bandiere d’Italia si inchinarono ai caduti, ai mutilati, ai superstiti che compirono il loro dovere».