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I nuovi schiavi del lavoro: poveri nonostante l’impiego



Piero Martello.

In America li chiamano “working poors” e sono i “poveri nonostante il lavoro”, o meglio coloro che lavorano ma senza le condizioni minime per un vivere decoroso: salari troppo bassi, giudicati sotto la soglia di povertà, in riferimento agli indici Istat, dalla stessa Procura di Milano e in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione anche se sottoscritti dai sindacati nei contratti collettivi, nessun contributo versato, orari di lavoro improbabili. Quella che sembra una contraddizione in termini – come si fa a esser poveri se si lavora? – è una realtà che si sta allargando a macchia d’olio in tutti i Paesi. Ma caporalato, che determina uno stacco ancora più netto fra le classi sociali, si sta diffondendo anche nel settore della cultura: è di questi giorni la notizia di 4 euro all’ora o poco di più per lavorare come maschere a teatro. Ma la piaga investe molti ambiti produttivi: supermercati, logistica, commercio.

Una situazione preoccupante che è stato il focus del convegno organizzato domani alle ore 14 alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale dalla Rivista di diritto del lavoro  www.lavorodirittieuropa.it, diretta dal magistrato Piero Martello – i cui editoriali su salario e dignità sono un valido approfondimento del problema.

Il convegno, dal titolo “Sfruttamento del lavoro e modelli organizzativi tra prevenzione e repressione”, incentrato sulle istruttorie del pm di Milano Paolo Storari in materia di sfruttamento dei lavoratori, vedrà la presenza di penalisti e giuslavoristi, con l’introduzione di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale. Si parte dall’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa…”.

Ma il lavoro è un privilegio o un diritto? “Stanno emergendo situazioni di sfruttamento che credevamo scomparse dalla storia, situazioni di gente che appena prova a protestare viene o licenziata o trasferita anche a duecento chilometri di distanza”, commenta Piero Martello. “Ho letto la deposizione di una lavoratrice, con a carico la madre anziana e malata, che vive con lei in un dormitorio pubblico perché con il suo stipendio non può permettersi di prendere in affitto una casa. Ci sono lavoratori con stipendi da fame pur avendo un contratto regolare. Il bisogno costringe ad accettare qualunque cosa ed è sul bisogno che fanno leva i disonesti che vogliono lucrare. Siamo tornati ad epoche pre-industriali: all’inizio della rivoluzione industriale i lavoratori erano pagati pochissimo, le donne la metà dei maschi e i ragazzi la metà delle donne”.

Il pm Paolo Storari interviene in questo settore già da alcuni anni. Sono sempre più diffusi i casi in cui imprese forniscono manodopera ad altre imprese committenti che invece di assumere il personale che gli serve per alcune funzioni lo reclutano dalle prime perché gli assicurano costi nettamente inferiori a quelli di mercato, creando anche distorsioni nella libera concorrenza. “Io lo chiamo il metodo Storari”, prosegue Martello. “Le sue indagini sono approfondite e i provvedimenti motivati si fondano su due meccanismi: alle imprese fornitrici, una volta accertate le irregolarità, nomina un amministratore giudiziario con il compito di eliminare le situazioni di illegalità e alle imprese committenti spesso blocca i conti a garanzia dei debiti. Il più delle volte non si arriva neanche al processo perché le aziende regolarizzano tutto durante l’istruttoria, pagando i contributi non versati e lo stipendio giusto ai lavoratori, molte volte aumentandolo fino al 40% per portarlo ai livelli costituzionali. Il pm richiede, così, l’archiviazione della causa. Questo per dire quanto le accuse siano fondate. Il processo può portare una condanna alla reclusione. Il risultato migliore, però, non è quello di condannare per alcuni mesi di pena un amministratore delegato o un capo del personale, ma quello di eliminare la situazione di illegalità a beneficio del lavoratore”. Continua: “Il primo danno è al fisco perché queste aziende evadono le tasse, il secondo al sistema previdenziale perché non pagano i contributi e il terzo al mercato, cioè alla libera concorrenza e agli imprenditori onesti che tengono in regola i lavoratori”.

Quando si arriva al penale, che è un intervento necessitato, vuol dire che qualcosa prima non ha funzionato? “Significa che non sono intervenuti come avrebbero dovuto gli altri strumenti non penali che potrebbero evitare l’illecito e quindi l’indagine: l’ispettorato del lavoro, i sindacati, ma anche le associazioni dei datori di lavoro che segnalando gli illeciti tutelerebbero gli imprenditori onesti e quindi la regolarità del mercato danneggiata da queste pratiche”, conclude.

Per tale ragione era stata proposta tempo fa in Parlamento l’introduzione del salario minimo, che fu poi accantonata. La domanda: con retribuzioni a 4,60 euro lordi all’ora, che corrispondono più o meno a uno stipendio di 900 euro al mese, come si riesce a campare? Qui entrano in gioco quei diritti umani non derogabili riconosciuti dalle Nazioni unite: il diritto alla vita e il diritto alla libertà dalla schiavitù. Non sono, forse, queste pratiche che fanno leva su uno stato di bisogno una forma moderna di schiavismo? Soprattutto: cosa resta del Novecento, secolo del lavoro, delle conquiste del lavoro e dei diritti di cui diceva Norberto Bobbio? In un’epoca marcata da grandi differenze fra progresso scientifico e progresso morale cosa resta della nostra storia?

 

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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