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I dazi sono la tempesta perfetta? Chi paga il conto?



Andrea Monticini.

Trump, i dazi sulle merci importate applicati tout court a una sessantina di Paesi che intrattengono scambi commerciali con gli Stati Uniti (all’Europa il 20%) creano danni all’economia globale. Mentre si decide su come passare all’azione, e se passare all’azione o aspettare, le borse in Europa e in Asia crollano. L’America non sembra aver imparato la lezione di Reagan («i dazi portano recessione e mercati in profondo rosso»). Ne parliamo con Andrea Monticini, ordinario di Econometria finanziaria all’Università Cattolica di Milano ed uno dei massimi esperti di tariffe doganali.

Professore, perché sono crollati i mercati finanziari?

«Perché c’è incertezza, nessuno crede ragionevolmente che quei dazi resteranno in piedi così come sono stati imposti, ma contemporaneamente non sappiamo neanche cosa succederà. La decisione di Trump è stata completamente inattesa sotto due aspetti: l’intensità, perché sono dazi molto elevati, e l’estensione, perché Trump ha deciso di imporli a tantissimi Paesi. Ci si aspetta che i dazi, che sono una tassa sul consumatore americano (è lui che compra i prodotti sottoposti a dazio), provochino un aumento dell’inflazione in quel Paese. Nonostante quello che dice Trump, mettere un dazio sull’importazione significa far sì che quei beni al consumatore americano costino di più. In Europa, invece, la conseguenza del dazio è che si venderanno meno prodotti negli Stati Uniti, quindi ci saranno meno profitti per le aziende e di conseguenza meno lavoro, quindi meno occupazione».

Cosa rischiano i risparmiatori?
«Le azioni hanno vistose perdite di valore. Ma chi ha titoli di Stato od obbligazioni non deve avere grave preoccupazione perché non risentono di questo shock».

Non ci saranno rincari per gli europei?

«In questa fase ancora no. Solo se l’Unione europea deciderà di mettere dei contro-dazi sui beni che importeremo dagli Stati Uniti avremo un’inflazione importata anche da noi. Il ciclo economico comunque sta rallentando. Dipende da come andrà la contrattazione: l’Europa starà ferma o darà vita a una guerra commerciale a catena? Nell’incertezza le imprese non faranno investimenti».

Qual è la soluzione migliore?

«La soluzione migliore è non rispondere per limitare i danni, anche perché la decisione di Trump è talmente forte che provocherà un grande dissenso negli Stati Uniti, proprio per il disagio che creerà nei consumatori americani. La mia aspettativa ragionevole è che da qui all’estate quei dazi, così come sono stati presentati il 2 aprile, saranno sicuramente rivisti. L’approccio europeo mi sembra che sia quello di rinegoziarne l’entità minacciando contro-dazi. Oppure si potrebbe rispondere facendo esattamente l’opposto, ossia con accordi con più Paesi possibili per avere un libero scambio, escludendo gli Stati Uniti, in modo tale da agevolare per le imprese italiane la sostituzione del mercato americano con altri mercati, cosa peraltro non semplice».

Con quali Paesi? Forse la Cina, che è stata colpita con una maxi aliquota del 104%?

«La Cina ha prodotti abbastanza similia a quelli europei e quindi probabilmente è il Paese a cui stare più attenti possibili. Penso, invece, a India, Vietnam, Corea del Sud, Giappone».

Gli Stati Uniti esportano da noi meno di quanto noi esportiamo verso di loro?

«Vero per quanto riguarda le merci, ma non per i servizi».

I dazi influiscono sulla concorrenza tra le imprese?

«Sì, c’è una vecchia frase di Milton Friedman che diceva che i dazi proteggono dai bassi prezzi. I dazi possono avere senso in alcuni periodi, ma devono essere molto precisi, specifici e con un obiettivo chiaro e non, come ha fatto Trump, frutto di un disegno velleitario di riuscire a controllare tutte le dinamiche economiche per far girare a proprio favore la situazione».

Qual è l’obiettivo di Trump?

L’obiettivo dichiarato è riportare le aziende a produrre direttamente negli Stati Uniti, ad avere una produzione domestica di quel bene colpito dal dazio, ma è un obiettivo palesemente inconsistente per un paio di motivi: la manodopera là è particolarmente scarsa e l’immigrazione dovrebbe essere favorita, invece si va verso una politica opposta, inoltre c’è bisogno di materie prime, per esempio l’acciaio, che però è stato uno dei primi beni su cui Trump ha messo il dazio. Ma qui si innesca un altro problema: se l’obiettivo è riportare negli Usa la produzione non si può pensare di andare a trattare sui dazi, eventualmente abbassandoli, per stipulare un nuovo accordo: il dazio deve rimanere da qui ai prossimi 15-20 anni per far sì che per un’impresa diventi conveniente andare su quel mercato a produrre».

L’incertezza sul futuro non spinge le imprese ad andare a produrre negli Stati Uniti?

«Esattamente. Le amministrazioni cambieranno, il futuro dei dazi pure e spostare un’impresa è complicato, motivo per cui se ha già uno stabilimento là si appoggerà a quello per ampliare la produzione, ma altrimenti no. Ad esempio, se dobbiamo produrre siringhe per l’insulina e negli Stati Uniti non c’è quella manodopera, quella competenza, quella materia prima, nessuno andrà a impostare una fabbrica ex novo».

Trump pensa di riuscire a coprire coi dazi il debito americano?

«Il debito americano viene finanziato con il risparmio mondiale. L’amministrazione americana nei prossimi quattro anni ha un grosso quantitativo di titoli di debito in scadenza e ha bisogno che vengano comprati: questa è un’altra arma eventualmente di ricatto da parte dell’Europa. Sono stati fatti conti strampalati: il deficit americano è molto elevato e non si può pensare di coprirlo con dazi che hanno un gettito relativamente basso. E poi c’è un’incongruenza di fondo: Trump come può pensare di prendere dai dazi un gettito di cento per coprire un deficit di cento se le aziende portano la produzione negli Stati Uniti? Quel dazio non sarà più imposto. Ecco perché c’è volatilità nei mercati: non si capisce dove si andrà a parare».

Ma i dazi sono reciproci come afferma Trump?

«Il modo di calcolo è fantasioso, fatto per inquinare il dibattito. Alcuni dei punti potevano anche essere veri, su alcuni temi ci potevano essere dazi messi in misura asimmetrica tra Europa e Stati Uniti, ma su alcuni beni specifici e di entità nettamente inferiore a quella presentata da Trump. Lui ha sostanzialmente calcolato import meno export diviso l’import: questa è stata la misura del dazio».

Reagan ha sempre sconsigliato il protezionismo…

«La globalizzazione porta crescita e benessere, lo sappiamo da David Ricardo in avanti. Qual è il punto sbagliato negli ultimi trent’anni?  Che non ci siamo preoccupati di sapere a chi è andata questa crescita, come è stata ripartita. Quando si dice che c’è benessere non significa che tutti stiano meglio, ma che complessivamente si sta meglio, di sicuro ci sono fasce di popolazione che stanno peggio. Evidentemente nel processo di globalizzazione la redistribuzione di questa ricchezza generale non è stata presa troppo in considerazione, non è stata equa. È lì che non ha funzionato l’ingranaggio».

 

 

 

 

 

 

 

 

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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