Cari amici lettori, in occasione del Giubileo degli ammalati (5-6 aprile), su Credere n 14 /2025 vi raccontiamo di una struttura che accoglie una delle sofferenze più sconvolgenti, quella dei piccoli che vivono una malattia molto grave e talvolta irreversibile, attraverso le storie di chi li affianca in quell’ultimo tratto di vita, prendendosene cura nel corpo e nello spirito. Si tratta di una realtà che “sfida” anche chi crede: il tema del “perché il dolore innocente?”, infatti, ci trova sempre un po’ disarmati. Se possiamo “capire” in qualche modo il male dovuto a catastrofi naturali o il male “morale” – cioè quello causato dall’uomo, con le sue scelte sbagliate –, di fronte agli innocenti che soffrono le parole vengono meno. Quali luci ci offre la fede in proposito?
Se guardiamo alla Bibbia, la sofferenza compare in molti modi (il giusto perseguitato nei Salmi, la storia di Giobbe, il Crocifisso…), ma non troviamo una “dottrina” organica né una risposta esaustiva. La sofferenza resta un interrogativo aperto, o magari diventa un “grido” rabbioso verso Dio, che rimane comunque un modo di stare in relazione con Lui anche nel “profondo dell’abisso”.
La Parola di Dio ci insegna a non “addomesticare” il dolore con facili soluzioni consolatorie, semmai a portarlo davanti a Dio. Ma ci mostra anche un principio di risposta proprio in quello che Dio ha fatto per noi: non una teoria, ma un evento, l’invio del Figlio che ha condiviso la nostra condizione umana in tutto, comprese la sofferenza e la morte. Condivisione, vicinanza. Un po’ come quando si sta accanto a una persona sofferente: non tante parole, ma presenza, empatia, ascolto, atteggiamento solidale.
Ci sono bellissimi versetti della Lettera agli Ebrei che dipingono questo atteggiamento fraterno da parte di Cristo «sommo sacerdote misericordioso» che ha “imparato” dalla sofferenza patita (Ebrei 2,1418; 4,1416; 5,710).
Da parte sua san Paolo si trova a rispondere a una domanda che serpeggia tra i suoi fedeli di Roma: come mai i cristiani, che pure hanno ricevuto lo Spirito che libera dalla paura e dalla morte, soffrono e muoiono come gli altri? Se siamo figli amati, perché siamo soggetti alle avversità della vita? La risposta dell’Apostolo, molto densa, trova il suo culmine verso la fine del capitolo 8 della Lettera ai Romani: Dio «è per noi», è dalla nostra parte, perché «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» e «ci donerà ogni cosa insieme a lui» (Romani 8,31-32). Per il tempo presente abbiamo la “caparra”, l’anticipo, della vita eterna e la certezza del suo amore a sorreggerci, anche in mezzo alle avversità (Romani 8,35-37).
Mi vengono in mente le esperienze di tanti ammalati che vanno a Lourdes: spesso la guarigione, inaspettata, è quella interiore, la guarigione dalla rassegnazione, dalla ribellione, dall’isolamento. Con la speranza dentro, e con persone intorno che si prendono cura, si può attraversare anche la sofferenza, come ci ha insegnato la vicenda di due Papi, san Giovanni Paolo II in passato e Francesco oggi: non come “eroi” ma come cristiani fiduciosi, certi di un amore più grande.
(foto in alto: Narici/Agf)