Il racconto del pellegrinaggio intrapreso oggi, 11 aprile, da superiori e officiali del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale. Il segretario suor Smerilli: “In cammino per ricordare che, in ogni circostanza, non tutto è perduto”. Il passaggio dalla Porta Santa della Basilica Vaticana al culmine di una settimana di appuntamenti formativi e di programmazione
Edoardo Giribaldi e Lorena Leonardi – Città del Vaticano
Lungi dall’essere un “turista religioso”, ogni pellegrino che si mette in cammino verso una Porta Santa “è un uomo o una donna che, con il cuore aperto, riconosce il bisogno di ricominciare e farsi toccare dalla tenerezza di Dio”. Ecco che “quel cammino esteriore diventa il riflesso di un desiderio più profondo: tornare a casa, come il figlio prodigo del Vangelo, e sperimentare la gioia di essere accolti, perdonati, abbracciati dal Padre”. Con queste parole il cardinale prefetto Michael Czerny, si è rivolto stamattina, 11 aprile, agli officiali del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale (Dssui), in occasione del pellegrinaggio giubilare.
Un gesto che parla al cuore
Tutti insieme, superiori, donne e uomini dipendenti di lungo corso e nuovi assunti, hanno preso parte, nella chiesa di Sant’Anna in Vaticano, alla Celebrazione eucaristica presieduta dal porporato gesuita. Poco prima, aveva guidato i circa 50 partecipanti lungo via della Conciliazione e nel passaggio della Porta Santa della basilica di San Pietro. Certamente “un segno esterno”, osserva Czerny, che deve però “corrispondere a un movimento del cuore: conversione, desiderio di rinnovamento spirituale, fiducia nella misericordia di Dio”. Non si tratta “solo di passare fisicamente attraverso un varco aperto in una basilica: è un gesto – prosegue – che parla al cuore e richiama il cammino interiore che ogni cristiano è chiamato a compiere nel tempo della misericordia”.
Per vivere un’esistenza piena
Se la Porta Santa rappresenta Cristo, attraversarla, allora, “significa scegliere consapevolmente di entrare nella vita nuova che Lui offre, lasciandosi alle spalle il peso del peccato, del giudizio e delle chiusure del cuore”, compiendo un vero “passaggio spirituale” a una “vita nuova di grazia e comunione con Dio e servizio al prossimo”. Per vivere “un’esistenza piena”, conclude Czerny, dobbiamo dunque “attraversare Cristo, entrare in lui, collocarci nello spazio della sua relazione con il Padre”. Un passaggio, quello odierno, culmine di una settimana fitta di appuntamenti formativi e di programmazione, in cui è stato coinvolto tutto il personale della struttura della Santa Sede che ha raccolto l’eredità dei pontifici consigli della giustizia e della Pace, “Cor Unum”, della Pastorale per i migranti e gli itineranti e quello della Pastorale per gli operatori sanitari.
Comprendere il dono della misericordia
“Stiamo vivendo un momento particolare”, spiega suor Alessandra Smerilli, segretario del Dicastero. Un momento iniziato lunedì con “l’attraversamento della Porta Santa del carcere di Rebibbia e un incontro con volontari e detenuti. Esso ha consentito comprendere il valore della misericordia e della speranza. Oggi concludiamo con il pellegrinaggio che tutti i fedeli che arrivano a Roma fanno: significa metterci in cammino – continua la religiosa – portando con noi i pesi, le gioie, le angosce e i dolori di coloro ai quali come Dicastero ci rivolgiamo, per chiedere insieme il dono della misericordia e di rinvigorire la speranza. Non tutto è perduto”.
Tre motivi per sperare
Parole nelle quali risuonano i “tre motivi di speranza” ricordati durante l’incontro nel carcere romano qualche giorno fa dal sottosegretario, il cardinale Fabio Baggio: prima di tutto, “il Signore non ci abbandona mai, neppure nei momenti più bui della nostra vita” e ci aspetta “quando decidiamo di tornare a lui dopo esserci allontanati”; ci regala “sempre una nuova opportunità anche quando sbagliamo” e, “dopo aver assunto le nostre responsabilità e pagato per i nostri errori, si apre un nuovo cammino come il figliol prodigo”. Infine, “anche quando la giustizia umana sbaglia – sottolinea il porporato scalabriniano, facendo riferimento alla vicenda biblica di Susanna – non perdiamo la speranza in quella divina, che opera misteriosamente nella storia”.
Le voci degli officiali
I diritti umani, la salute, la pace, la persona e la sua dignità sono pane quotidiano per chi lavora al Dicastero: lo sa bene Margherita Romanelli, trent’anni di servizio, incaricata della pastorale della strada con un’attenzione particolare alle donne vulnerabili, immigrate e vittime di abusi e sfruttamento. Con il passaggio alla Porta Santa “mi sono assunta ancora una volta la responsabilità del dono di lavorare al servizio del Santo Padre”, racconta l’officiale, che è presidente dell’associazione “Donne in Vaticano”. “Dio è la speranza che non ci abbandona nemmeno di fronte alle vicissitudini che stiamo vivendo a livello mondiale. Se lo mettiamo al primo posto nella nostra vita la speranza è già oggi”, le fa eco Alvin Macalalad, collega filippino al Dssui, in cerca “di una luce più forte dell’oscurità”, vera “forza per andare avanti nelle situazioni difficili”. Come quelle che ha visto suor Marie Josepha Mukabayire arrivata a gennaio dal Rwanda: il suo compito al Dicastero è raccogliere le questioni più urgenti nel continente africano. Al momento si sta concentrando “sulle infermiere — sottolinea — spesso costrette alla povertà, perché le uniche della famiglia a portare a casa uno stipendio vista la disoccupazione dilagante”.