di Lorenzo Rossi
Ci sono silenzi che pesano come macigni. E ci sono donne che trovano la forza di spezzarli. Gisèle Pelicot, vittima e simbolo, è uscita per prima dalla sala d’udienza. Ha scelto il silenzio, ma il suo gesto parla per lei: un passo oltre l’orrore, verso la giustizia. Dietro di lei, 51 uomini, i suoi aguzzini. Nessuno assolto, nessuno risparmiato. Sei saranno liberi, perché la detenzione preventiva ha coperto la pena inflitta. Ventisei, invece, andranno direttamente in carcere. Le condanne, dai tre ai tredici anni, sono state meno severe di quanto chiesto dall’accusa, ma per una volta la bilancia della giustizia ha oscillato dal lato giusto. La vicenda di Mazan è una storia che ha scosso profondamente l’opinione pubblica, un processo che non solo ha portato alla condanna di 51 uomini, ma ha anche messo in luce la brutalità della violenza domestica e sessuale in una dimensione senza precedenti. Tutto ruota attorno a Dominique Pelicot, un uomo che per oltre un decennio ha drogato la moglie Gisèle con ansiolitici per poi stuprarla e consegnarla a decine di sconosciuti reclutati su Internet. Il teatro dell’orrore era la loro casa, un luogo che avrebbe dovuto rappresentare sicurezza e amore, ma che si è trasformato in un incubo quotidiano.
Il processo di Mazan, comune situato nel dipartimento di Vaucluse, nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, nel sud-est della Francia, che si è concluso con la condanna di tutti gli imputati, è stato definito unico per l’entità dei crimini e il numero degli accusati. I fatti emersi in aula hanno rivelato non solo la sistematicità della violenza perpetrata da Dominique Pelicot, ma anche il coinvolgimento di altri uomini, che partecipavano consapevolmente a questi abusi. Dominique Pelicot, considerato l’artefice principale di questi abusi, è stato condannato alla pena massima di 20 anni, con un periodo di sicurezza di due terzi. Un segnale forte, ma che non cancella gli anni di sofferenza subiti dalla vittima. La vittima, nel frattempo, è diventata il simbolo di una battaglia più grande: quella per rompere il silenzio sulla violenza di genere. Grazie alla sua determinazione, il processo è stato reso pubblico, trasformandosi in un evento che ha contribuito a sensibilizzare la società sull’importanza di denunciare e contrastare questi crimini.
La vicenda di Mazan non è solo un resoconto di abusi, ma una riflessione dolorosa sulla responsabilità collettiva di fronte alle violenze che spesso si consumano nell’ombra. È un monito per tutti noi, affinché nessun’altra Gisèle debba mai più affrontare un calvario simile. Gisèle ha lottato perché il processo fosse pubblico, affinché il dolore non rimanesse confinato tra le mura della sua casa trasformata in prigione e teatro di atrocità. «Incarni una forza e una resilienza ammirevoli», le ha scritto Prisca Thevenot, ex ministra. Yaël Braun-Pivet, presidente dell’Assemblea Nazionale, è andata oltre: «Grazie al tuo coraggio, la vergogna ha cambiato campo. Il mondo non è più lo stesso grazie a te». Ma il processo di Mazan non è stato solo il palco del coraggio di Gisèle. È stato anche il tribunale della crudeltà di Dominique Pelicot, il marito carnefice, che per dieci anni ha drogato e stuprato sua moglie, consegnandola a decine di sconosciuti trovati su Internet. Per lui, la pena massima: vent’anni di carcere, con un obbligo di sicurezza pari a due terzi della pena e l’iscrizione al registro dei delinquenti sessuali. Un processo senza precedenti, per numeri e atrocità. Gisèle non ha parlato oggi. Ma non ha mai taciuto. Il suo coraggio è un faro per tutte le vittime. E quel silenzio, carico di significato, è l’eco di una battaglia che ha appena cominciato a riscrivere la storia.