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Ginnastica ritmica e artistica, non si fermano gli scandali nel mondo: vince ancora il modello Bela Karolyi?

Béla Karolyi, l’allenatore di Nadia Comaneci, diventato controverso simbolo anche dei successi della ginnastica statunitense, travolta però dal più grande scandalo di abusi (caso Nasser) mai visto nello sport occidentale, è morto il 14 novembre scorso ed è tempo che la Federazione internazionale di ginnastica e con essa le federazioni che ne sono articolazioni nazionali, a cominciare dalla nostra, facciano i conti con l’ombra ingombrante del suo mito e dei suoi metodi.

 


Processi in Italia e nuovi scandali nel mondo

Lo impongono le notizie delle ultime settimane: un’ordinanza del Gip di Monza ha disposto l’imputazione coatta per Emanuela Maccarani, direttrice tecnica delle «farfalle» della ginnastica ritmica al centro tecnico di Desio, con l’accusa di maltrattamenti.

Mariana Vasileva, ex allenatrice della squadra di ginnastica ritmica dell’Azerbaigian e attuale viceministro dello sport del Paese, è stata condannata a una squalifica internazionale di otto anni per violenze verbali e fisiche contro le atlete condotta dalla Gymnastics Ethics Foundation.

In Germania nel dicembre scorso I’ex ginnasta d’élite Tabea Alt ha utilizzato il suo account Instagram per rendere pubblici gli abusi che ha dichiarato di aver subito presso il centro nazionale di ginnastica di Stoccarda e “nella ginnastica femminile tedesca in generale”. «Non è un caso isolato: disturbi alimentari, addestramento punitivo, antidolorifici, minacce e umiliazioni erano all’ordine del giorno. Oggi so che si trattava di abusi fisici e mentali sistematici», ha scritto. Situazioni simili erano state, in passato, oggetto di rapporti indipendenti e di segnalazioni, in Gran Bretagna, in Brasile, in Svizzera.

Le denunce più o meno formali sono troppo diffuse per essere casuali e per non far pensare a un modello da ripensare ancorché vincente. Il fatto che si parli di situazioni esplose ai livelli apicali di Federazioni che esprimono il meglio della ginnastica mondiale (ora è ritmica, ora è artistica, ma cambia l’ordine dei fattori il prodotto non cambia), non possono essere ricondotte a casi isolati.

CASO USA, DA KAROLYI A NASSAR

  

Béla Karolyi era l’espressione della Romania oltre cortina di ferro che ha portato la ginnastica nelle case degli spettatori Tv di tutto il mondo attraverso il sorriso bambino di Nadia Comaneci, 14 anni, a Montral 1976: troppo bello per chiederne il prezzo. Prima di lei era stata Olga Korbut a Monaco 1972 a far innamorare il mondo. Cominciava così l’era delle ginnaste bambine, più adatte alle evoluzioni più ardite, ma anche più manipolabili e più a rischio di maltrattamenti. Quello che capitava nello sport del blocco sovietico è diventato di dominio pubblico molto dopo con l’apertura degli archivi della Stasi in Ddr.

Ma intanto il modello Korbut, Comaneci, e poi Silivas, Omelianchik ecc faceva scuola, negli Usa, in Cina. Si replica sempre il modello vincente, quale che sia per stare al passo. Per anni non ci siamo chiesti quale fosse il costo di quello che vedevamo. Il pubblico dello sport in genere non ama sentirsi raccontare le storture che ci sono dietro.

Quando Béla (e la moglie Martha con lui), esuli negli Usa, divennero gli artefici del sogno dell’artistica americana, fino all’oro a squadre a Los Angeles 1984, la cortina ancora in piedi, nessuno andò a grattare sotto i lustrini incollati sui body del sogno a stelle e strisce. C’è voluto per aprire gli occhi il caso diverso e ancor più grave del medico federale che perpetrò un’infinità di abusi sessuali sulle ginnaste statunitensi, mentre intorno nessuno vedeva e sentiva, famiglie comprese, che non credevano alle figlie, come ha dimostrato il drammatico processo, di cui fu testimone vittima Simone Biles, finito con una condanna a una  valanga di anni di carcere. Almeno si è acceso un riflettore ineludibile sul rischio di quel tipo di abusi, che nessuno è più – si spera – disposto a coprire, anche perché la sensibilità in termini di reati di genere è cambiata (si spera senza regressi).


Il modello sergente di ferro vince ancora?

Si devono ancora fare i conti invece con il modello vincente dell’allenatore sergente di ferro stile addestramento “Ufficiale gentiluomo” che Béla e Martha Karolyi hanno rappresentato simbolicamente per decenni agli occhi del mondo e che in qualche modo come un fantasma ancora aleggia su tanta retorica del sacrificio sportivo non solo nella ginnastica.

L’ordinanza del Gip di Monza letta con cura fa emergere un problema macroscopico: il rischio connesso a strutture, come spesso sono i centri federali di discipline che richiedono lunghi o lunghissimi periodi di vita comune per atleti almeno inizialmente minorenni, il cui controllo è sottratto alle famiglie ed è affidato a dirigenti allenatori che troppo spesso sono plenipotenziari (il caso del Ranch dei Karolyi ne fu un esempio alla massima potenza).

Se le esigenze della disciplina ad altissimo livello fanno sì che giovanissimi atleti (e ancor più giovanissime atlete) si trovino lontani da casa, dalle famiglie, da una regolare frequenza scolastica ordinaria che viene recuperata in altri modi, dalla vita reale dei loro coetanei;  se è vero che ci sono discipline (quelle della ginnastica ne fanno parte) che richiedono rigore e concentrazione, perché senza ci si può fare molto male; se è vero che la competizione ai massimi livelli mondiali chiede un impegno e una tenuta fisica e mentale fuori del comune per emergere, a maggior ragione è indispensabile che queste strutture e le persone che le dirigono e che gestiscono tutto o quasi non siano sole a farlo e non abbiano il potere di scegliersi le figure di controllo.

ALMENO SEPARIAMO CONTROLLORI E CONTROLLATI

  

Diversamente si rischia che si verifichi quanto ricostruito nell’ordinanza del Tribunale di Monza al punto in cui si legge: «le indagini hanno consentito di acclarare l’assoluta mancanza di indipendenza del nutrizionista e dello psicologo introdotti nello staff della direttrice tecnica e che erano a lei legati da vincoli lato sensu familiari o amicali».

Se sono connaturati allo sport di vertice elementi che ne fanno un lavoro a rischio, soprattutto quando ad arrivare al vertice sono atleti molto giovani o minorenni, non può venire meno, per il codice morale e per il codice penale, il dovere di salvaguardia e protezione nei loro confronti che sta in capo alle persone cui sono affidate e alle Federazioni che le controllano.

E se è vero che cambiare la cultura di un movimento intero (tecnici, giudici, atleti, spettatori, giornalisti…) richiede tempo, la separazione rigorosa tra controllori e controllati deve essere fatta subito.

E le strutture chiuse devono avere finestre e porte metaforicamente aperte, altrimenti non se ne esce. Perché si rischia anche in buona fede di perpetuare un modello da aggiornare pensando che sia quello giusto o l’unico possibile e di farlo pensare anche a chi ci cresce dentro. 

 





Dal sito Famiglia Cristiana

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