Dal Tribunale di Norimberga, dopo la Seconda guerra mondiale, all’adozione da parte dell’Onu della Dichiarazione sulla prevenzione e repressione del genocidio, il diritto internazionale ha rafforzato la tutela giuridica contro questo crimine. Nell’agire tra gli umani, tuttavia, l’analisi di una commissione d’inchiesta o la determinazione di un tribunale sono doverosamente precedute dal giudizio della coscienza e dall’obbligo della verità
Vincenzo Buonomo*
“Un crimine senza nome”: così Winston Churchill reagì di fronte allo sterminio degli ebrei posto in atto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Efferatezza, assurdità, male assoluto, violazione di ogni regola sono i termini allora e oggi utilizzati di fronte a quegli atti impensabili ma compiuti, posti con l’intenzione di una “soluzione finale”. La mancanza di una definizione rispondente alla gravità di quella condotta durò poco. Nello stesso periodo (eravamo nel 1944) fu il giurista polacco Raphaël Lemkin a identificare come genocidio la “distruzione” di nazioni, popoli, gruppi etnici. I contenuti del suo libro Axis Rule in Occupied Europe divennero riferimento per l’istituzione e il lavoro del Tribunale di Norimberga, per poi entrare in modo decisivo nel dibattito dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite concretizzatosi l’11 dicembre 1946 con la Dichiarazione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio, e appena due anni dopo con l’omonima Convenzione. Atto obbligante quest’ultimo, non a caso adottato il 9 dicembre 1948, un giorno prima che l’Onu emanasse la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
L’evoluzione del diritto internazionale
L’idea del genocidio come crimine internazionale, il pensarlo come un’azione o un’intenzione che la civiltà condanna, si arricchiva di un supporto normativo. La possibilità che la legge sia pronta a perseguire, a individuare e giudicare i mandanti e gli esecutori, siano essi anche organi di uno Stato, trova in quel momento il plauso o piuttosto la condivisione, convinta, di tutte le nazioni. Anche i distinguo, legati soprattutto alla repressione del crimine, vennero superati dalle istanze multilaterali, come nel caso della Corte internazionale di giustizia che bocciò la pretesa sovietica di sottrarsi all’obbligo posto a tutti gli stati di intervenire lì dove si avesse notizia — e quindi comprovati argomenti — della sistematica eliminazione di un gruppo etnico, religioso, linguistico o comunque identitario posta in essere da uno Stato o un gruppo di stati. In concreto la Convenzione stabiliva l’obbligo di ogni Stato di fermare responsabili e autorità che avessero adottato misure per commettere un tale crimine. Altri distinguo, poi, non sono mancati nei periodi successivi, volti anzitutto a caratterizzare il genocidio rispetto ad altri crimini (lo sterminio, la pulizia etnica, il trasferimento forzato di un popolo) solo sulla base di un approccio quantitativo. A prevalere però è stata la determinazione che è sufficiente la sola intenzione e quindi la mens indipendentemente dall’actus, perché ci sia genocidio.
L’uso del termine genocidio
È soprattutto intorno al termine (non tanto sul suo significato ma sul suo uso) che si sono giocati nel corso della storia recente, quella che ci separa dalla seconda guerra mondiale, partite e giochi di diverso tipo. Considerazioni politiche, sia interne agli stati che internazionali, sono diventate preponderanti anche rispetto alle situazioni che immediatamente lasciavano presagire un genocidio. Fu così per i fatti in Rwanda dove nel 1992 si “preferì” inizialmente parlare di scontro interetnico, nonostante le evidenze. La questione non è da porsi in relazione all’adesione o meno alla Convenzione del 1948, come non è legata al fatto che uno Stato sia parte della Corte penale internazionale che dal 1998 ha dato una più ampia caratterizzazione del crimine, anche attraverso la sua operatività. Gli effetti di un genocidio, e non solo le immagini, sono qualcosa di talmente sconcertante che lo strumento tecnico della ratifica o dell’adesione a norme codificate appare secondario.
I casi dell’ex Jugoslavia e del Rwanda
Paradossalmente di fronte a quanto avviene nelle aree di guerra, diventa irrilevante anche fermarsi ai contenuti della regolamentazione che ormai tutti o quasi tutti gli stati hanno inserito nella loro legislazione penale. L’attenzione, invece, va posta sul fatto che non può essere immediatamente letta come genocidio ogni situazione nella quale atti di guerra o terroristici oppure attacchi rivolti contro la popolazione civile vengono rilevati nella condotta di eserciti regolari o di gruppi armati. Certamente il ruolo della giurisprudenza internazionale soprattutto rispetto a quanto avvenuto nella ex Jugoslavia e parallelamente, almeno in senso temporale, in Rwanda, ha aperto a ulteriori considerazioni aggiungendo elementi a quella tipizzazione del crimine che rischiano di farlo apparire sempre più come un grande contenitore nel quale inserire progetti, comportamenti o azioni delittuose la cui configurazione oscilla tra i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità e non immediatamente si identifica con l’originaria fattispecie di genocidio. Questioni formali direbbe qualcuno, volontà di non intervenire per qualcun altro, ma certamente, nel definire situazioni il cui peso e i cui effetti toccano la vita e l’identità delle persone, il diritto e la conseguente azione giudiziaria mostrano la loro funzione indispensabile.La questione probabilmente non sta nei profili formali il cui valore è certo, come mostra la Convenzione e oggi anche un diritto internazionale penale sempre più affinato, quanto piuttosto nella funzione preventiva e dissuasiva di comportamenti che hanno le regole, anche quelle internazionali relative al genocidio. È poco realistico pensare che un tribunale internazionale — ieri quelli della ex Jugoslavia e del Rwanda, o quelli per la Cambogia e la Sierra Leone, oggi la Corte penale internazionale — possa essere considerato strumento risolutivo per il solo fatto di poter procedere contro chi è accusato di genocidio. Un dato è certo, però: di una giurisdizione internazionale complementare a quella degli stati non è possibile privarsi. A meno di decidere che rilevare un genocidio sia prerogativa solo dei singoli paesi, con il rischio di soluzioni à la carte, omettendo interventi super partes. Un tale approccio dimentica che probabilmente una lettura multilaterale o comunque svolta “fuori dai confini” di uno Stato — i cui organi magari sono accusati di genocidio — ha sicuramente una maggiore capacità di interpretare le situazioni, non limitandosi a ricostruire episodi, dinamiche e fatti, ma individuando cause e modalità di comportamenti identificabili come genocidio.
Eliminare un’identità
Tutto l’impianto del diritto internazionale volto a prevenire o reprimere la distruzione di un gruppo identitario mostra come l’obiettivo sia quello di cancellare dalla prassi degli Stati, anche e soprattutto durante i conflitti, l’idea che è possibile (per qualcuno ormai quasi necessario) eliminare in tutti i modi l’avversario, inteso come collettività, popolo, etnia o identità. Far comprendere la gravità assoluta di progettare o agire senza alcun riferimento ai principi di distinzione o della necessità militare o al più articolato principio di umanità, non risponde a quella “pubblica coscienza” che è frutto di valori maturati e acquisiti, è, si direbbe, meta di civiltà. Ma soprattutto è condivisione di alcuni presupposti edificati dall’umanità nella sua storia. Identificare il genocidio significa anzitutto accertarne i responsabili per valutarne i comportamenti, leggerne la volontà e l’intenzione restando liberi da condizionamenti e da una differente interpretazione di casi non solo analoghi o somiglianti, ma identici. Certo, l’intenzione di eliminare un’identità, che la si chiami crimine internazionale, di guerra o contro l’umanità, oppure genocidio, rimane l’espressione di una mente volta a legittimare ogni tipo di comportamento in nome del “tutto è permesso”. Si dirà che in alcuni casi gli ordini superiori, la legittima difesa, i danni collaterali sono elementi non solo giustificativi, ma anche esimenti una responsabilità genocidaria. Ma questo può reggere di fronte a chi inerme e indifeso si ritrova vittima a motivo della sua identità o dell’appartenenza? Generalizzare l’idea o la natura del genocidio espone al rischio di dimenticare il suo essere un “crimine senza nome” per il fatto che si tratta dell’efferatezza più grande che si possa compiere. Atti che le applicazioni poste da tribunali internazionali e interni hanno esplicitato nei contenuti, definendo di conseguenza le responsabilità di coloro che sono accusati di avere, nelle intenzioni e nei fatti, operato per annientare persone e gruppi.
L’obbligo della verità
Episodi di epoche passate e situazioni attuali mostrano come persecuzioni, eliminazioni sistematiche, comportamenti distruttivi di identità operati durante un conflitto o in situazioni ordinarie producono migliaia di morti, di fronte ai quali il dolore e lo sgomento possono porre in secondo piano lo stabilire se si tratta o meno di genocidio. Rimane invece la necessità di interrogarsi su come trattare gli autori, di preoccuparsi delle vittime e non solo di una loro quantificazione. Soprattutto, però, va cancellato ogni pretesto per derubricare il comportamento genocidario, così da diminuirne la gravità e le imputazioni conseguenti. Il genocidio non può essere scambiato per un criterio variabile in ragione delle latitudini, dei contesti politici o dei sistemi di alleanza. Ieri come oggi, di fronte al male compiuto durante un conflitto verso un’identità al fine di acquisire vantaggi economici, territoriali o anche per espandere visioni confessionali o ideologiche, servono a poco giustificazioni in nome dell’obbedienza alla legge, dell’esecuzione di ordini superiori o della protezione dal terrorismo; né appare giusto attendere la fine del conflitto per poi applicare la logica del fait accompli. Per garantire l’ordine internazionale e quello interno delle nazioni è invece doveroso perseguire quelle azioni finalizzate a distruggere una identità e che al di là della terminologia o, come direbbe il giurista, della fattispecie applicabile, hanno il medesimo effetto. Nell’agire tra gli umani, l’analisi di una commissione d’inchiesta o la determinazione di un tribunale sono doverosamente precedute dal giudizio della coscienza e dall’obbligo della verità.
*Ordinario di diritto internazional alla Pontificia Università Lateranense