Padre Gabriel Romanelli, raggiunto al telefono nel compound dove resta vicino alla comunità cristiana e ai rifugiati accolti, ringrazia Francesco per la sua telefonata di questi giorni. Una chiamata “breve ma molto sentita e apprezzata. Lo abbiamo visto all’Angelus domenica, lo abbiamo ringraziato per il suo appello di pace”. E aggiunge: la pace vera si deve costruire sulla giustizia. Non si possono spostare le persone come fossero degli oggetti e privarle dei loro diritti
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Da Gaza arriva la testimonianza del parroco della Sacra Famiglia, padre Gabriel Romanelli, che conferma la vicinanza di Papa Francesco alla popolazione stremata per la guerra. Un paio di giorni fa, riferisce il sacerdote, il Papa è tornato a telefonare, da Casa Santa Marta dove sta trascorrendo il periodo di convalescenza: “Il Papa ha chiamato, ha salutato, ha domandato come andavamo, come stava la gente”. L’esultanza dei piccoli, il ringraziamento per questo ulteriore gesto di tenerezza.
Grazie al Papa della sua vicinanza
“La gente era molto contenta di sapere che stava chiamando, quando ha chiamato eravamo alla porta della canonica, all’interno del compound, i bambini e i ragazzi hanno cominciato a gridare Viva il Papa, in arabo, in italiano”, racconta padre Gabriel. “Lui ha inviato la sua benedizione, la preghiera. È stata una telefonata breve ma molto sentita, molto apprezzata. Gli abbiamo detto che eravamo molto contenti di averlo visto domenica all’Angelus e sentito ancora una volta il suo appello per la pace. La situazione è veramente terribile in tutta la Striscia – continua il religioso -, quindi abbiamo apprezzato molto la sua vicinanza, la sua preghiera e la preoccupazione per tutti. Lo abbiamo ringraziato”.
Finisca la guerra, per il bene di tutti
Il parroco conferma che le condizioni in cui vive la popolazione della Striscia sono “inimmaginabili”, proprio come le ha definite il Papa nel testo dell’Angelus diffuso domenica 6 aprile. E continua a lanciare l’appello affinché non si fermi la preghiera: “Pregare tanto per il dono della pace e lavorare per la pace. Convincere tutti, tutti i responsabili delle nazioni che la pace è possibile. Finché continuerà questo conflitto armato, non sarà risolto nessun problema, sostanzialmente. È tutto il contrario”. È convinto che è necessario “convincere affinché finisca questa guerra con tutte le condizioni che interessano al popolo, questa parte del popolo palestinese, ma per il bene di tutti, palestinesi e israeliani. Pregare e lavorare per la pace e la giustizia. Si deve fermare questa guerra quanto prima. Più di due milioni di persone vivono qua!”.
“Siamo in una gabbia”
Romanelli spiega che provvidenzialmente la comunità cristiana, “grazie a Dio e all’aiuto costante del Patriarcato latino di Gerusalemme”, sta bene, per quanto queste parole possano significare in un contesto come questo. “Insieme ai nostri 500 rifugiati e ai nostri vicini musulmani del quartiere Zeitoun per il momento stiamo bene nonostante stia cominciando a scarseggiare tutto. In altri quartieri manca tutto, cibo, acqua; la crisi già esisteva prima della guerra figuriamoci adesso, dopo un anno e mezzo di guerra. L’emergenza di cibo, acqua e medicinali è urgentissima in tutta la Striscia”. L’immagine di territori spettrali è quella che lo stesso don Gabriel restituisce, e in mezzo alla devastazione si cerca di non far mancare l’aiuto: “Gaza è una prigione, è diventata una gabbia, una grande gabbia. Noi facciamo del bene alle persone, per quanto possibile, alle centinaia di rifugiati, alle migliaia di famiglie di civili musulmani che sono attorno a noi. Aiutiamo tutti, cristiani e non cristiani, cerchiamo di fare veramente uno strumento di pace per tutti”.
“Speriamo in chi vuole davvero la pace”
È una vera Quaresima, una pesante Croce, quella sperimentata dalla popolazione di Gaza, che cerca di non rassegnarsi del tutto. “Sì, però contiamo sull’aiuto del Signore, delle persone di buona volontà che davvero desiderano la pace”. L’appello, ancora una volta, è di pregare per la pace e lavorare per la pace e la giustizia. “Convincere tuti che questa guerra deve finire. È il primo passo necessario. E poi dare speranza che possano continuare a vivere nella Striscia di Gaza senza spostarli”, scandisce il parroco, il quale dice che ormai nemmeno si sa più quante persone ci siano nella Striscia. “Si parla ancora di 2 milioni e 300 mila persone. A Gaza City prima della guerra eravamo un milione e centomila al nord, poi durante la guerra siamo rimasti in 400 mila, quando hanno cominciato il cessate-il-fuoco si calcola che almeno 300 mila persone sono andate dal Sud al Nord, ora non si sa…”.
Le persone non possono essere spostate come degli oggetti
Alla ipotesi che Gaza possa essere trasformata in una spiaggia turistica togliendo di mezzo la popolazione residente, seppur allo stremo, don Romanelli risponde lapidario: “Bisogna rispettare il diritto di ogni essere umano, a prescindere dalla sua cittadinanza, dalla sua religione, la sua situazione. Il popolo palestinese di questa parte di Terra Santa è costituito da 2 milioni e 300 mila persone, sono persone umane! Uno dei diritti umani – prosegue -, riconosciuto universalmente è il diritto ad avere la propria terra. Le persone sono soggetto di diritti, non sono oggetti. Non si possono spostare e privare le persone dei loro diritti, primo tra tutti quello alla vita e poi di stare nella loro terra, e di avere assistenza e proprietà, i loro affetti, i loro affari. La pace vera si deve costruire sulla giustizia non sulla ingiustizia”.